Produrre fantasmi (prima parte)
Una storia sui sogni che facciamo, e su quelli che facciamo fare.
Mentre finiva settembre mi sono ritrovato a Zines, un festival di piccola editoria indipendente che fanno a Palermo, a presentare Fantasma1 e a parlare con tante persone di una serie di lavori che ho prodotto recentemente. Ho incontrato molta gente e, come spesso succede, le loro reazioni al mio lavoro mi hanno aiutato a capirlo meglio. Mi è servito un sacco, ed è stato così interessante che credo sia il caso di riassumere tutto molto brevemente, in pochi punti. Partiamo da quando eravamo bambini.
Intorno a me non c’era nessuno, ero solo e disperato. Avrò avuto forse dieci anni, ed ero nel giardino della casa di campagna dove passavamo tutte le estati. Correvo fortissimo, sul prato dietro casa, salendo verso la zona dove ci sono più alberi e un piccolo stagno. Alle mie spalle uno sciame di api, o più probabilmente di vespe, mi stava rincorrendo, nervosissimo per qualcosa che avevo fatto poco prima e di cui già non mi ricordavo più. Mi resi conto presto che non avrei potuto scappare davvero, e così mi fermai e mi voltai verso lo sciame, ormai praticamente su di me. Gli aprii la mano destra contro, sospesa a mezz’aria davanti alla mia faccia, urlando: “Stoooooppp!”. E incredibilmente tutte le api, che più probabilmente erano vespe, si bloccarono in volo. Per aria, con le ali immobili, come congelate. Potevo girarci intorno, potevo anche abbassare la mano e quelle restavano comunque ferme a un metro e mezzo da terra. Ero come Neo che ferma i proiettili in Matrix, molti anni prima di Matrix. Presi fiato e mi allontanai orgoglioso. Da quel momento in poi, pensai, niente sarebbe stato più come prima. Avevo i superpoteri, potevo fare quello che volevo. Potevo fare succedere le cose, o potevo evitare che succedessero. E soprattutto potevo farlo coscientemente. Tutti sono capaci di sognare cose fantasiose, ma in pochi si rendono conto di stare sognando. E ancora meno poi sanno manipolare i propri sogni in tempo reale. Se ero una persona qualunque da sveglio, sarei stato straordinario dormendo. Che grande consolazione, a pensarci adesso. Sembra quello che dicono le madri dei loro figli piccoli, per prendersi in giro: “È un angelo, quando dorme”. In sogno sarei potuto essere tutto, bastava allenarmi, bastava fare pratica.
Qualche tempo dopo mi fu chiaro che non era così facile. Essere straordinari in sogno è ancora più complicato che da svegli, e lo è per conflitto di interessi: in quella dimensione i limiti e i poteri li setti tu. E come fai ad essere straordinario, a vincere veramente la partita, quando sei tu l’arbitro e il giudice? Al di là dell’onnipotenza che quindi non conquistai, quello che mi portai e ancora mi porto dentro da quei giorni, fu il fatto di sapere talvolta di stare sognando, e agire di conseguenza.
Nei miei sogni di bambino, quelle volte in cui ero in estrema difficoltà e non sapevo più cosa fare, negli incubi dove ero ormai in trappola, preda di un mostro che era lì lì per annientarmi, sapevo che l’unica possibilità era la fuga: dovevo uscire dal sogno, svegliarmi. E iniziavo ad urlare fortissimo chiamando i miei genitori. O almeno nel sogno era un volume enorme, spesso completamente fuoriluogo. Magari c’ero io arrampicato su un albero con una pantera che furtiva e spaventosissima mi aveva scoperto e stava salendo, e nel cuore della giungla, immerso in un’atmosfera silenziosa e netta urlavo: “Mammaaaaaaaa! Mammmaaaaa! Papàààà! Mammaaaaa”. Pure la pantera sembrava rimanerci male a vedere rovinato così tanto quel pathos in cui lei esisteva, prendeva forma e faceva del suo meglio. Era se come si fosse rotta la complicità che teneva insieme tutto, il tacito accordo per cui ognuno - io, la pantera, la giungla, il silenzio - facevamo finta che tutto quello stesse succedendo sul serio e non fossimo solo dei personaggi. Era come se a teatro il protagonista ad un certo punto, magari sul più bello, impazziva denunciando a tutti la messa in scena.
Ad ogni modo la mia strategia non era affatto quella di sconcertare tutti gli altri personaggi del sogno. L’idea era invece questa: se io urlavo e mi sbattevo così tanto, alla fine qualche suono magari usciva pure dalla mia bocca, la mia bocca vera intendo, quella di me steso sul letto, nel buio e nel silenzio dell'appartamento in cui vivevamo, in mezzo alla periferia di una città di provincia, dove non c’è niente che si senta per centinaia di chilometri; uno di quei posti che quando li guardi ripresi dal satellite di notte ti chiedi “ma come si fa a non avere paura di così tanto buio tutto intorno”; e lì in mezzo a quel buio e a quella quiete un bambino dice, dormendo, qualcosa che non si capisce, un lamento, un richiamo. Il bello è che avevo ragione, spesso funzionava. Dentro di me ero in fiamme, un pirata diventato naufrago, un’isola abitata solo dal male, i mostri e le catastofi, le fughe e i combattimenti, le minacce e poi le urla verso il cielo nero: “Mammaaaaaaaaaaa”. Nel mondo reale la mia bocca urlava piano, quel tanto che bastava da svegliare per un attimo i miei, allarmare mia madre che dall’altra stanza mi chiamava, o magari veniva a controllare, svegliandomi e perciò salvandomi.
Questa pratica di solito funzionava. Anche se poi c’erano le volte, non molte per fortuna, che la voce non usciva in nessun modo, nemmeno un sibilo, e restavo io da solo ad urlare fortissimo mamma e papà davanti ad tirannosauro, oppure davanti ad una moltitudine di zombie, o davanti ad un ninja letale e sempre più perplesso, senza riuscire a fare altro che rendermi ridicolo. Una volta in particolare ero inseguito da un tipo che per qualche ragione voleva ammazzarmi. Era un uomo grosso e molto determinato e mi rincorreva in vari scenari, che attraversavamo entrambi come livelli di un videogioco, fino ad arrivare in una giungla - di nuovo - dove ad un certo punto trovavo una stanza. Quattro pareti bianche, una porta e nessun tetto. Entravo e mi chiudevo dentro. Il tipo era fuori e io mi ero messo in trappola. Il sogno era già abbastanza surreale e chiamare mia madre non mi sembrò una mossa così destabilizzante per la storia, tanto più che in quella stanza ero solo e non c’era nessuno a giudicarmi. Però nessuno rispose, il trucco non funzionava. Il tipo intanto era fomentatissimo dal sapermi in trappola e si stava attrezzando per arrampicarsi sulle pareti dall’esterno, scavalcare, e venirmi a fare tutto il male possibile.
In quella occasione sperimentai una variante. Non riuscivo a svegliarmi facendo rumore, e perciò avrei dovuto scuotermi in altro modo. Avrei dovuto stimolare il mio corpo così tanto da svegliarlo, e scelsi il dolore. Dovevo farmi male, in sogno. Solo che chiuso in quella stanza non avevo niente per pugnalarmi, o per tagliarmi o colpirmi, e iniziai perciò a prendere a testate una parete. Mi viene sempre da immaginarmi le cose nel loro contesto, viste da più lontano: una giungla fittissima in mezzo alla quale un uomo grosso e corrucciato gira intorno ad una struttura bianca, quattro pareti che formano un quadrato chiuso. Da questa struttura arriva un rumore sordo e cadenzato: tum, tum, tum. Tutta la giungla si ferma ad ascoltare, basita, forse spaventata. Nessuno sa cosa sta succedendo. Pure l’energumeno si ferma a fissare una parete bianca che sembra tremare. Io, oltre quella parete, finisco col procurarmi un trauma cranico e svengo. E quindi mi sveglio.
Quello che molte persone avranno riconosciuto in questo racconto è la pratica del Sogno Lucido, ovvero un tipo di attività onirica non così frequente (ma nemmeno rarissima) in cui siamo coscienti e interattivi mentre ci siamo immersi. Io non ne sapevo niente da bambino, succedeva e basta. Poi da grande ho capito che è una roba antichissima e profondissima che, come tante altre, parte come oggetto dei riti sciamanici e diventa un videocorso online.
Ad ogni modo ne sto parlando qui, in relazione al mio lavoro, perché tra i tanti aspetti affascinanti dei sogni lucidi ce n’è uno che mi interessa particolarmente. Si tratta dei reality check, ovvero i controlli che si fanno per capire se ti trovi in un sogno o meno (e di conseguenza se puoi liberare o meno la tua onnipotenza). Ce ne sono diversi, e tutti quanti mi fanno pensare sempre alla stessa cosa: l’intelligenza artificiale generativa.
Leggi la seconda parte della storia, la trovi qui:
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