Il turismo sostenibile non esiste. Per fortuna nemmeno tutto il resto.
Il turismo sostenibile è come le caramelle senza zucchero. E il problema delle caramelle non è mai stato lo zucchero, ma l’essere caramelle.
Modi di dire
Il turismo sostenibile non esiste. È solo un modo di dire, in questo momento molto alla moda, come in passato lo sono state le caramelle senza zucchero. Si è capito che pur togliendo effettivamente lo zucchero il problema è rimasto: un problema non tanto nutrizionale, ma di abitudini alimentari, soprattutto infantili. Insomma, il problema delle caramelle non è mai stato lo zucchero, ma l’essere caramelle.
Possiamo provare a convincerci del contrario, e cioè che un turismo sostenibile possa esistere, immaginando ad esempio viaggi nei piccoli borghi dell'appennino meridionale. Riscopriamo quest’estate, ancora una volta, paesi che sanno di provincia e di anni novanta, scollegati dal mondo e per questo autentici, arretrati, sinceri e ignoranti. Mucchi di case incastrati dentro paesaggi agresti o boschivi che arrivano fino all’orizzonte; borghi dai quali, prima di vedere una città che si possa chiamare tale, devi fare decine e decine di chilometri di autostrada; e prima di poter raggiungere un’autostrada devi farti dieci minuti di elicottero, se ce l’hai; e se non ce l’hai allora aggiungi un’altra oretta su strade di vario tipo, pure quelle tra le più autentiche e sincere che tu possa immaginare. E le ragioni per andare a riscoprire questi piccoli luoghi - oltre ad essere le stesse che li hanno progressivamente spopolati, facendoli apparire ormai quasi evacuati, e rendendoli un ottimo caso studio sul turismo alternativo - non sono affatto quelle che proviamo a raccontarci. Le relazioni di prossimità, il silenzio, la mancanza di traffico, la scarsa densità abitativa, il lavorare poco, la dimensione in cui tutti si conoscono. Sono tutti motivi che hanno fatto scappare le persone a vent’anni, e per te che arrivi un weekend sono solo storie che ti racconti. Anzi, solo stories.
L’unica vera esigenza di un turista sostenibile oggi è credere di non stare facendo cose da turista. La sostenibilità del turismo, in fondo in fondo, non ha niente a che vedere con l’impatto generato dalla nostra presenza nel luogo che ci ospita. Ha invece moltissimo a che fare con le nostre ambizioni di autenticità e di anticonformismo; col sentirsi fuori dalla massa e al tempo stesso, se possibile, virtuosi nelle scelte e nei comportamenti. Che impatto ha il viaggio che sto facendo su tutte queste mie proiezioni? Sto facendo quello che veramente si fa in questo posto? Che si fa in questo posto quando nessuno guarda? Quanto mi può inquinare le aspettative di autenticità questo viaggio? Riesco a sostestenere tutta quest’ansia di stare forse investendo male il mio tempo libero? Eccola la vera sostenibilità del turismo, per cui eventualmente scegliamo un viaggio piuttosto che un altro: sostenibilità della nostra ansia.
Locande, draghi e vergini
Mi rendo conto che in molti, forse la maggioranza di persone che si trova a fare un viaggio zaino in spalla in Molise o in Irpinia, hanno intenzioni più o meno sane. Però, mi spiace dirlo, restano intenzioni. Quello che inevitabilmente succede è che il viaggiatore contemporaneo, ovvero il turista, persegue il suo scopo di conoscenza, esplorazione e rendiconto. E d’altra parte il posto che lo accoglie lo asseconda in questo, spesso con gentile ospitalità. E questa relazione, nel mondo in cui ci troviamo, si trasforma quasi sempre e quasi immediatamente in una relazione economica. Da quel momento in poi, è un piano inclinato.
Un giorno un viaggiatore arriva in un borgo, senza nessuna ragione se non passarci le ferie. Si trova in un luogo sperso. L’uomo mangia in un bar, dorme in una pensione, batte a culo un vecchio a carte e fa una foto ad una ragazzina. Tutti nel paese, in quell’occasione, ci guadagnano per il solo fatto di esistere in quel modo. Sembrerebbe uno scambio fantastico e virtuoso, se non fosse che prima le persone in paese passavano gran parte del tempo a immaginare una scusa per poter telefonare ai figli ormai grandi e lontani, e dirgli che finalmente potevano ritornare a casa, che ormai le cose erano cambiate, c’era lavoro, c’era gente, e si poteva stare bene anche lì. Non c’era bisogno di aspettare un altro terremoto, e altri soldi.
Quando arriva il turista, e poi magari ne arriva un altro con la famiglia, e poi un’altra coppia (ed è auspicabile che arrivino, perchè tutti dovrebbero vedere i piccoli borghi antichi) ci sono la pensione, il vecchio e la ragazzina sempre più pronti, sempre più trasformati e sempre più adatti.
« Buongiorno buonuomo, sono un avventore. Ho visto su Instagram, sul profilo di una persona che mi sembra felicissima, che qui c’è una taverna dove ha mangiato molto bene, e poi ha dormito nella locanda locale. E ho visto anche che ha sconfitto un drago del posto e ha sposato una vergine. Avete problemi con i draghi? Dove? Vorremmo avere tutto questo anche sul nostro Instagram. Anche noi siamo felicissimi, sa? »
E in poco tempo quell’autenticità diventa un parco a tema, lo stereotipo di un borgo medievale, dove il meccanico diventa maniscalco, il fruttivendolo inizia a vendere solo mele candite, e viene pure demolito un pezzo di campo sportivo per dire che sono le rovine del castello.
Non viaggiare?
Per questi versi l’unico turismo buono, oggigiorno, è il non turismo. E non vuol dire stare per forza fermi, vuol dire che quando si viaggia con la necessità di intrattenersi e soprattutto di riempire le ferie, iniziano a uscire i draghi da tutte le parti. È evidente ormai che voler vedere le bellezze del mondo è diventato un problema: se sono naturali le sfondiamo, e se sono culturali e immateriali (a caso: il centro storico di Napoli, il mercato del Capo a Palermo, ecc) le trasformiamo in scenografie e clownerie. E generiamo tutta una serie di problemi di lungo termine in quei luoghi - cose che non voglio qui ripetere, come il problema abitativo e la qualità della vita dei residenti (ma che possono essere approfonditi un minimo qui e qui).
L’unica cosa che voglio citare, perchè mi fa ridere, è il paradosso dell’Unesco, una situazione che davvero esiste, e che l’Unesco in primis riconosce come problematica. Ormai è diventata prassi che ogni volta che un sito viene inserito nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità, da un lato viene immediatamente promosso dall’amministrazione locale per aumentare le visite e l’indotto, dall’altro è subito preso di mira dalle persone come meta universalmente bellissima, fino a ieri sconosciuta, e quindi oggi imprescindibile. E questa fortissima pressione genera un accappottamento generale - un paradosso appunto - per cui l’esistenza di quel luogo, o monumento, o contesto che è stato appunto segnalato come qualcosa di prezioso, da proteggere e tutelare, nel giro di pochissimo tempo è messa in forte pericolo proprio dall’inserimento in quella lista. Perché la fruizione di massa sconvolge gli equilibri di qualsiasi luogo, soprattutto se è una fruizione veloce, ripetitiva e basata su grandissimi numeri.
Io mi immagino l’Unesco che vede che c’è un giardino molto bello, magari in una zona anche arida, una specie di oasi, e decide di segnalarlo e di proteggerlo. Pianifica di sostenere la sua bellezza e la biodiversità di flora e fauna, magari contribuendo a seminare piante nuove, in modo da infoltire la vegetazione. E così lancia timidamente dei semi nel giardino e un minuto dopo arrivano centinaia di migliaia di uccelli migratori (turisti pure loro) che effettivamente apprezzano moltissimo. Sono uno spettacolo incredibile, tutti insieme; si buttano sui semi e si mangiano ogni cosa, e quando se ne vanno lasciano pure tutto cacato. L’Unesco è effettivamente in difficoltà, ma io non provo alcuna compassione.
E quindi? Quali dovrebbero essere gli altri scopi del nostro viaggiare, se il turismo non va bene? Non voglio fare un vademecum, che poi sembrano precetti. Però provo a fare esempi solo per arrivare ad un punto. Viaggiare per lavoro (cose più o meno brevi); trasferimenti per fare fortuna in Germania o in America o in Australia (cose più o meno lunghe); viaggiare per una visita medica, o per un intervento (non è bello, ma è una ragione anche questa); migrare per sfuggire ad una guerra o a una situazione di forte disagio (ancora meno bella, ma più sempre più da considerare, soprattutto perchè un paio di punti fa ci stava tuo cugino che andava in America a fare fortuna e non era un problema); andare a trovare la fidanzata che si è conosciuta online (trasferendosi poi a casa sua per settimane); andare a festeggiare il matrimonio di un amico di infanzia, che intanto si è trasferito al nord.
Ecco, tutte queste storie sono alcuni dei motivi che fanno spostare le persone da un posto all’altro - e magari generano anche un’economia nelle destinazioni - preservando però un’autenticità della relazione tra persone e luoghi. Quel luogo che è la nostra destinazione resta il più possibile com’è, a prescindere dal fatto che noi ci andiamo o meno (o comunque vive dei cambiamenti più lenti, minimi, marginali, a causa delle nostre visite). In altre parole, non campando direttamente su visitatori che pagano solo per presenziare a qualcosa, quel luogo non si trasforma improvvisamente nello spettacolo che ci si aspetta di vedere. Quello è il populismo dei luoghi: posti che a causa della turistificazione si sono limitati ad essere quello che si voleva sentir dire di loro. E che così facendo diventano adatti soltanto ad essere visitati, e sempre meno abitati.
Oltre il problema: come le caramelle.
Il turismo sostenibile, nel suo non esistere, delinea una dimensione contraddittoria che va ben oltre i viaggi che facciamo e il mondo che tentiamo di conoscere: il suo destino è un destino condiviso con molte altre vicende in cui siamo immersi, in cui continuiamo a raccontarci una storia quasi sempre soltanto perché non riusciamo a immaginarne (figuriamoci ad attuarla) una alternativa.
Sappiamo ad esempio che il traffico, e l’utilizzo dell’auto, e la mobilità in generale hanno un impatto gigantesco sulla qualità della vita nel sistema che abitiamo. O anche sappiamo che il lavoro è quasi sempre sopravvalutato, a volte addirittura senza senso, comparato al tempo e agli sforzi che gli dedichiamo. Il lavoro serve spesso soltanto ad essere pagati, e non ci riflettiamo mai abbastanza su questa cosa.
Anzi, devo fare una piccola digressione, perdonatemi.
Piccola digressione sul lavoro
Il lavoro come strumento di autodeterminazione è un concetto superato come lo è quello del viaggiatore e dell’esploratore. Il lavoro oggi nel mondo è per la stragrande maggioranza dei casi un pacco. È principalmente uno strumento di subordinazione, raccontato invece spesso come una necessità, un mezzo di sussistenza, e in qualche caso più raro (dipende comunque anche dal contesto e dalla geografia in cui ne parliamo) come via di emancipazione e affrancamento. Se questo è stato vero, e credo lo sia stato per un lasso di tempo piuttosto breve, non lo è più. Nella nostra comunità il lavoro è spesso soltanto occupazione, impiego. Non ha niente a che vedere con la realizzazione delle persone, molto di più invece con il loro benessere percepito. Chi crede di stare a posto, poi a posto ci sta veramente, in tutti i sensi. Tutto questo non è per forza un male, dopotutto la società ha sempre avuto bisogno di stabilità e spesso l’ha trovata intorno a degli idoli, a dei simboli, o magari religioni.
La consapevolezza non basta
Eppure, nonostante tutto, non riusciamo a interagire con il mondo diversamente: la maggior parte di noi non riesce a fare a meno di viaggiare tramite Airbnb o simili, non riesce a fare a meno di possedere almeno un’auto per famiglia e ad usarla molto più spesso di quanto vorrebbe, e sicuramente non riesce a smettere di lavorare, a volte neanche a lavorare meno. E questo succede anche se ne capiamo l’importanza, se lo desideriamo, se scriviamo o arriviamo a leggere fino a qui (complimenti!) testi come questo.
La ragione di tutto questo è unica, ed è banalmente il sistema in cui viviamo. Stavo per scrivere sistema capitalistico, ma poi non l’ho scritto, per paura di attirare pregiudizi. Ma anche se non lo scrivo resta vero che il capitalismo ha nascosto il consumo in ogni attività che facciamo, anche le più belle più utili, come il conoscere il mondo e il diverso. Perché viaggiare dovrebbe essere proprio questo: conoscere e scoprire il diverso, arricchirsi per differenza. E invece per qualche ragione che non ho capito, anche questa cosa è andata a finire male. E sembrava una cosa inattaccabile: viaggiare come comprarsi i libri, o mangiare qualcosa fuori insieme. Anche dietro queste cose così, facili, c’è ormai il consumo. E io non ho capito perché. Sto qui a fare tutta una serie di riflessioni sul mondo che cambia e le ragioni di questo mondo che finisce, ma non c’ho capito niente. Come fa il capitalismo a far fiorire all’apparenza qualsiasi cosa, bruciandola e marcendola da dentro, l’avranno capito bene i marxisti e quelli che si occupano di gentrificazione e speculazioni ed economia estrattiva, quelli che mi rispondono che il problema più grande oggi è che la classe media a cui facciamo parte si sta impoverendo e sta progressivamente scomparendo. Loro magari lo hanno capito, ma io no, non ancora.
Quello che ho in testa è più semplice: le scelte che noi stessi ci chiediamo di prendere, i comportamenti responsabili che vorremmo adottare in realtà ci sono impossibili. Scegliere non è sempre un’opzione praticabile, non individualmente; e il sistema di consumi in cui viviamo è l’unico sistema in cui in questo momento riusciamo a vivere, considerando esigenze e desideri, indotti o meno che siano. Se ci vendiamo la macchina e scegliamo di convertire tutta la nostra vita familiare alla bicicletta, a Roma, probabilmente finiamo investiti dal tipo che si è comprato la nostra auto, mentre andavamo entrambi a prendere i figli, in ritardo, all’asilo più economico trovato libero dall’altra parte del mondo. La storia di essere più responsabili e di allontanarsi da un sistema di consumi è solo una storia; ed è una storia che maschera moltissime responsabilità e scelte non prese da chi può e deve effettivamente prenderle. Non è scaricabarile, è che ci sono livelli a cui tutto questo può essere cambiato, seppur lentamente, e da quei livelli dobbiamo esigere responsabilità e direzioni. Si tratta di dinamiche macroscopiche, che perciò vanno indirizzate con visioni su larga scala, non certo pretendendo che le persone possano oggi permettersi, una ad una, di farsi le ferie green, oppure una vita senza auto, solo perchè sono dimensioni culturalmente più accettabili.
Vabbè mi sono stancato io a scrivere, figuriamoci tu a leggere.
Inconclusione (tutto attaccato): se il turismo sostenibile, la mobilità alternativa e il lavoro soddisfacente non esistono per come li stiamo raccontando adesso, non vuol dire che non esistano affatto.
Ahaahaha flusso di pensieri :) grazie, mi ha fatto riflettere. condivido diverse parti del testo. probabilmente non possiamo tornare indietro, sicuramente siamo immersi in un contesto capitalistico dove tutto diventa un bene di consumo. è triste, quindi capisco da dove vengano tutte le parole che ho appena letto. tuttavia, io voglio ancora a credere in nuovi modelli di turismo comunitario, per viaggiare in modo rigenerativo per i luoghi visitati, le persone che li abitano, con rispetto, e contribuendo attivamente alla conservazione dei luoghi. un turismo co-creato con le comunità ospitanti? io ci provo! se anche la politica sostenesse attivamente questo cambiamento :) con impegno
Ho troppo sonno e vorrei scrivere qualcosa di intelligente ma è impossibile quindi buonanotte