Il Posto alle Poste (prima parte)
La risposta che un padre è in grado di dare a tutte le domande sulla felicità e sulla vita è più o meno sempre la stessa: lo stipendio.
Ci sono momenti nella vita in cui uno prova a fare un bilancio tra quello che crede di aver realizzato e quello che effettivamente è riuscito a realizzare. A me succede una volta alla settimana. E questi bilanci sono una cosa difficile poiché per poter comparare le cose bisogna avere una misura, un termine di paragone. Chi lo dice quanto ho fatto di buono? Come si valuta l’impatto delle proprie scelte, soprattutto a lungo termine? Onestamente non lo so. Allora mi affido a quella misura comune che distingue da sempre il giusto dallo sbagliato, il successo dall’incapacità, il bene dal male: i soldi. Quasi sempre ci resto male.
A seconda dei periodi poi, i miei criteri di valutazione cambiano. Tanto per cominciare cambia la frequenza di questi bilanci. Come dicevo, circa una volta alla settimana mi domando come ho fatto ancora a restare in vita e, a cadenze più lunghe, tipo una volta all’anno, metto tutto in discussione.
Quando qualche anno fa stava per nascere Nina, la mia seconda figlia, fu diverso: avevo accelerato tutto. Mi chiedevo come avevo fatto a sopravvivere fino a quel momento circa ogni venti minuti, e almeno una volta al giorno decidevo di cambiare vita. Un giorno, tra tutto questo domandarmi e interrogarmi, arrivo ad una conclusione ovvia, e per questo molto rassicurante. La risposta che un padre è in grado di dare a tutte le domande sulla felicità e sulla vita è più o meno sempre la stessa: lo stipendio. Decido così di percepirne uno, e faccio domanda il pomeriggio stesso per andare a fare il postino, con il cuore leggero e il sorriso in faccia. Dopotutto il postino è un lavoro che è molto di più di un lavoro. Era una cosa che mi ripetevo tutto il tempo, pensando inevitabilmente a Massimo Troisi. Si dà il caso, per chi non lo sapesse, che Poste Italiane è alla continua ricerca di gente che voglia fare Massimo Troisi di lavoro. Ti fanno un contratto, ti pagano, ti pagano pure gli straordinari, e tu stai lì a recapitare poesie in motorino tutto il giorno. Il compito è impegnativo, ma appagante: bisogna saper trovare la poesia in ogni giorno, in ogni gesto, in ogni angolo di strada. È un’occasione offerta a molti, ma quasi nessuno, per qualche ragione, sembra accorgersene.
Qualche settimana dopo arrivo alla sede centrale delle Poste in una periferia di Palermo, dove mi mettono subito in una stanza con un’altra ventina di candidati. Il programma della giornata è abbastanza chiaro: un test di logica al computer, un colloquio con qualcuno delle risorse umane, e una prova di guida con uno scooter a pieno carico.
Ci fanno aspettare in quella stanza, che sembra una grande aula, con tante sedie di quelle che hanno il ripiano individuale per scrivere male. Sto un po' seduto e un po’ mi alzo, avvicinandomi agli altri e cercando di partecipare alle loro conversazioni per ammazzare il tempo. Non ci riesco benissimo, e mi rendo conto di sembrare fuori contesto. Forse addirittura di esserlo. Gli altri candidati, ragazzi e ragazze tendenzialmente tutti più giovani di me, sono vestiti come il giorno della laurea, con una cartellina in mano al cui interno presumo ci siano il diploma delle superiori, una copia del premio di poesia delle medie e una del trofeo di minigolf vinto quella volta a Paestum, con allegata la foto della coppa. E poi ovviamente diverse copie dei curriculum, che sospetto - perché ci siamo passati tutti - siano pieni delle competenze accumulate dalla laurea fino a quel momento, cioè nessuna, a parte l’enorme esperienza di partecipare a selezioni come quella.
«Che sai fare? Che cos’hai fatto dopo la laurea?»
«Beh, ho cercato lavoro.»
«Part-time?»
«Oh, no. L’ho cercato sempre da mattina a sera, a volte pure nei weekend, direi senza sosta. Ormai ho moltissima esperienza nel cercare lavoro, lo faccio molto bene.»
«E lo trovi?»
«Beh, quello non è esattamente il mio expertise, il mio ambito. Sa io mi occupo della fase di ricerca, poi di solito a trovarlo ci pensa un mio collega.»
«Capisco.»
Si comincia con il test di logica al computer. Mettono ognuno di noi davanti ad uno schermo, tutti nella stessa stanza, senza darci alcun tipo di informazione, tipo scimmie in un laboratorio. I computer sono accesi, sui monitor ci sono delle domande, delle forme, dei simboli. Abbiamo mezz’ora di tempo. Qualcuno di noi comincia ad interagire col computer, qualcun altro si mette a mangiare da una ciotola messa in un angolo, una ragazza inizia a parlare con gli esaminatori ad alta voce, due o tre si pisciano addosso, un signore - forse l’unico visibilmente più vecchio di me - inizia a sbavare leggendo le domande sul computer. Poi si alza, esce dalla stanza, rientra e va a rispondere alla domanda successiva. Un’altra ragazza, giovanissima, si lancia dalla finestra, ma siamo al piano terra e così invece di cadere vola. Gli esaminatori ci guardano attraverso un vetro antiproiettile da una stanza affianco, e prendono appunti. Tutti i test a cui abbiamo risposto restituiscono subito un punteggio, del quale però nessuno ci dice niente. Poco dopo ci ritroviamo tutti fuori a mangiare noccioline.
La seconda parte della selezione è costituita da un temutissimo colloquio. Il timore arriva dal fatto che nessuno riesce ad immaginarsi che colloqui debba sostenere un portalettere. Al di là di chiedermi come funzionano i numeri civici (pari da un lato, dispari dall’altro) di che possiamo mai parlare? Tutti temono, perché nessuno sa. Nessuno tranne me.
Io sto tranquillo perché credo di sapere. L’unica cosa di cui si può parlare in un colloquio per diventare postino non può essere altro che la poesia. Penso a Massimo Troisi e mi tranquillizzo. Troisi mi rasserena, mi dà pace.
Quando esco dalla stanza, appena concluso il mio colloquio, mi siedo su una sedia vicino ad una parete del corridoio e mi metto a fissare il vuoto. Tutti mi guardano e si avvicinano lentamente, non tanto per salvarmi, ma per capire se posso salvarli io. C’è una parte di me che vuole piangere, ma rimane inascoltata. Gli altri ragazzi e ragazze mi chiedono che cosa sia successo, preoccupatissimi per il loro futuro lavorativo. Gli dico che lì dentro non vogliono sapere niente, che è tutta una farsa. Fondamentalmente vogliono capire soltanto se sai parlare in italiano, qualsiasi cosa tu dica è ininfluente.
«Sì, ma di che avete parlato? Che ti hanno chiesto?»
«Ma non mi hanno chiesto proprio nulla, è questo il punto! Dovevano solo far passare venti minuti a fare finta di chiedermi qualcosa, a parlare senza ascoltare, ascoltare senza capire. Non vogliono nemmeno sapere che ne penso di Neruda.»
«Neruda? Ma certo che no, mica è nel programma!»
«Che programma?»
«Il programma di questa selezione.»
«E che cosa ci sarebbe nel programma?»
«Mah, non molto in effetti. Due o tre cose che ruotano tutte intorno allo stipendio.»
«Ah, vero!»
«Sì, sono solo tre capitoli, alla fine non è difficile:
“Perchè uno stipendio”
“I vantaggi della tredicesima”
“I contratti a tempo indeterminabile”»
«Adesso dovremmo andare ad incendiare qualche cassonetto.» concludo.
Ad ascoltare le mie parole sembrano tutti molto più sollevati, il colloquio gli sembra facile. La storia del cassonetto non la tengono in considerazione. Mi vado a fumare una sigaretta, in attesa dell’unica parte divertente della giornata: il test in motorino.
Dall-e?