Il Posto alle Poste (seconda parte)
Come se avere un lavoro non bastasse, come se non fosse già quella la risposta a tutte le domande sulla felicità.
La prima parte la trovi qui.
Ho guidato lo scooter per gran parte della mia gioventù. Anzi, la direi così: ho attraversato tutta la mia adolescenza in motorino. Ero uno di quei ragazzi che viveva intorno a questa cosa. Andavo a scuola, desideravo le ragazze, giocavo con la playstation, cercavo di diventare grande il prima possibile, come tutti. Però avevo questa fissazione del motorino, sopra ogni altra, almeno fino ai 16 anni. Non è vero, anche molto dopo. Dovunque andassi, qualunque cosa facessi, con chiunque fossi, dovevo comunque stare su un motorino. Non facevo altro, prendevo il mio Rally Aprilia e me ne andavo a perdermi da qualche parte.
Siamo fuori, in un grande spiazzo che è quello dove presumibilmente entrano i bilici e i furgoni con i pacchi. Comunque è tutto libero, ci sono solo dei piccoli coni colorati disposti per terra a creare dei confini immaginari. Il percorso è piuttosto semplice: bisogna fare delle manovre di base, accelerazione, frenata, un otto, robe così. Se non fosse che per farle ti danno un mezzo che pesa trecento chili (devi saper guidare uno scooter a pieno carico, visto che poi nel mondo reale dovrai trasportare centinaia di pacchi amazon e lettere d’amore), e che forse assomiglia più ad un vecchio sottomarino atomico sovietico, che ad un motorino.
C’è gente che non ce la fa. E dopo c’è gente che visto che quelli di prima non ce l’avevano fatta decide di non provarci proprio. L’esaminatore lo dice chiaramente: «Vedete che è essenziale. Se non risultate idonei alla guida del mezzo la selezione non la passate!»
«Lo faccio io» dico, convinto di farlo ad alta voce, col petto in fuori, con tutti gli occhi addosso. Tipo un marine che va volontario per il percorso di addestramento alla guerra definitiva.
«Chi ha parlato?» Tutti si guardano intorno per capire da dove fosse arrivato quel sussurro. Alzo la mano e ripeto che vado io, con la schiena un po’ curva e un’aria molto più interrogativa che affermativa.
Quando salgo sul Liberty Piaggio da trecento chili sono preoccupato. Devo rimanere concentrato, non posso sottovalutare la cosa. Anche se ho guidato il motorino per decine di migliaia di chilometri adesso è tutto al contrario. Quello scooter non rappresenta più la fuga di un adolescente dal conformismo e dalle regole sociali. È al contrario la strada verso il lavoro stabile, il mezzo che mi conduce allo stipendio e al mondo inquadrato e sicuro. E infatti è pesantissimo. È molto meno agile di quello che immaginavo, e se vuoi cambiare traiettoria è complicato, ci devi pensare con tanto anticipo e valutare bene di non perdere l’equilibrio. Quel motorino lì è una cazzo di metafora dell’età adulta.
Faccio tutto bene e mi allontano. Sono sollevato per aver finito, e al tempo stesso un po’ turbato. C’è una parte di me che non è contenta ad immaginarsi così.
Siamo di nuovo tutti nella prima stanza. Sembra effettivamente un’aula, ma un po’ anche un locale di un ospedale, o di un carcere. È una specie di ibrido. Forse si chiama ufficio.
Ci sono tre persone dietro una cattedra, verso la quale siamo tutti rivolti. Non sappiamo bene che cosa sta per succedere, ma mi aspetto che è quello il momento in cui si tirano un po’ le somme di tutta la selezione. Il momento in cui gli esaminatori, prima di dirci chi è passato e chi no, si sciolgono e iniziano a raccontarci tutto quello che non hanno potuto dire fino a quel momento, per non influenzare il processo di esame. E cioè che profilo stanno cercando, in cosa consiste il lavoro, che cosa ci si aspetta da chi viene preso. E poi anche cosa ci danno, quanti soldi. E poi ovviamente si parlerà di Massimo Troisi e di Pablo Neruda, e del fatto che nonostante le biciclette non si usino più, l’importante è spostarsi sempre su un mezzo a due ruote, perché quando si maneggiano certi mestieri è importante essere coerenti.
Si passano dei fogli e si dicono cose a bassa voce. Poi ad un certo punto quello al centro comincia:
«I nomi che chiamo adesso sono idonei. Dopo il nome dirò anche un quartiere. Comincerete lunedì, per 27 ore settimanali. Dovete dire se accettate o meno.»
Siamo tutti in silenzio, grossomodo. Il tipo comincia a chiamare in maniera davvero poco cerimoniosa. Una cosa del tipo: “Giuseppe Garibaldi, Piazzale Giotto”, e Giuseppe Garibaldi si alza e va a firmare. E poi Giovanna D’Arco all’Arenella, e ancora Lucio Battisti a Brancaccio e Moana Pozzi al quartiere Matteotti. Chiunque venga chiamato si alza, firma e torna a posto. E io non capisco, mi mancano dei pezzi, e più vanno avanti i nomi e meno capisco: qui nessuno oggi ha ancora mai parlato di Massimo Troisi, né tantomeno di stipendio. E perché sembro l’unico turbato da questa cosa? C’è evidentemente un passaggio che mi sono perso. Così mi piego verso una ragazza che è seduta alla mia destra, un paio di posti in là, e le chiedo a bassa voce:
«Scusa, ma Troisi?»
Lei mi osserva velocemente e poi si gira di nuovo davanti, attentissima, e mi risponde senza guardarmi.
«Troisi? Ancora non lo ha chiamato Troisi. Io non l’ho sentito. Sei tu?»
«No, lascia stare. È che volevo capire se avevano parlato del lavoro.»
«Beh certo, hanno detto che quelli che chiamano sono presi.»
A quel punto il tipo dice ad alta voce: «Boccaccino, Roberto. Corso Calatafimi».
«Sì, eccomi, salve.» alzo la mano.
«Dovrebbe venire a firmare qui.»
«Sì. Solo che io volevo qualche informazione se è possibile.»
«In che senso?»
«Nel senso di informazioni contrattuali. Pur volendo tralasciare Neruda, io comunque non ho capito qual è l’accordo. Cioè ho solo capito che c’ho una zona assegnata, per 27 ore la settimana. Per esempio lo stipendio?»
«Ma ancora non hai cominciato! Prima devi iniziare a lavorare, poi ti paghiamo.»
La mia domanda non è ingenua, ma tutti in quella stanza credono che lo sia e si guardano e sorridono, imbarazzati. Un po’ mi prendono per culo, un po’ sono spaventati. “Questo parla di soldi. Se la sta giocando malissimo.”
«Certo, lo capisco, non mi aspetto di essere pagato adesso. Però lei mi sta chiedendo di venire a firmare una cosa di cui non conosco i termini. Soprattutto di cui non conosco i miei interessi. Di che contratto parliamo? Con che compenso? Esistono gli straordinari? Quanto dura? E quando finisce che succede? Se mi ammalo? Se rinuncio me ne pentirò per sempre?»
A quel punto c’è silenzio. Anche se nessuno si muove, tutti mi lasciano al centro e si dispongono attaccati al muro, il più lontano possibile. Eccolo là: quello che doveva capire le cose come stanno, buttando al vento la svolta della vita, lo stipendio. Come se avere un lavoro non bastasse, come se non fosse già quella la risposta a tutte le domande sulla felicità.
«Guardi» dice in maniera rilassata l’esaminatore «le sue domande sono anche giuste, ma si basano su un equivoco. Qui tutti i candidati sono venuti per avere un impiego, e per nient’altro.»
Intorno a me si genera un brusio che immagino di approvazione, un brusio di curriculum, di prospettive e di traguardi.
«Dopotutto, anche lei è qui per lo stipendio. Non se lo ricorda? È venuto apposta. Che cosa credeva fosse lo stipendio? Una scelta? Un accordo? Lo stipendio è uno stile di vita, e questo che stiamo attraversando oggi è uno dei riti di iniziazione a quella vita. Lei ha mai visto un giovane guerriero Maori che dopo aver catturato una conchiglia sul fondo dell’oceano, diventando così adulto davanti agli anziani, domanda del valore di quella conchiglia? E magari rifiuta pure il giudizio degli anziani, rifiuta di diventare uomo? Lei non è qui per scegliere, lei è qui soltanto per essere scelto.»
A quel punto tutti i presenti cacciano all’unisono un urlo secco e aspirato. Una roba che suona tipo “Hoohaa!”. È breve ma forte, fortissimo. L’ufficio rimbomba per due secondi e poi torna subito in silenzio.
Si ma alla fine l'hai preso sto posto?