In questi giorni di classifiche e bilanci mi sono reso conto che sto molto indietro: ci sono un sacco di anni trascorsi a cui non ho più veramente ripensato e forse ha senso recuperarli, anche solo in parte. Altrimenti che racconto avrò di me? Avrò vissuto solo da che esistono i ricordi Facebook, o i wrapped Spotify, o i recap di Instagram (che forse non si chiamano nemmeno così)? E fuori da quello? Fuori da quello ci sarebbero i racconti che ho sentito, le cose a cui ho creduto, le cose che ho letto, quelle che mi sono inventato. Mischio tutto, ricordo male, immagino: non è molto, ma a questo punto è il meglio che ho per tenere traccia.
Non credo proprio di riuscire a recuperare ogni anno, intanto ne faccio uno, per come credo di ricordarmelo.
Fuori, 1984
Gennaio
È gennaio e sono fuori pericolo. Ormai è passato il tempo in cui non si poteva dire niente, e sono passati pure i giorni in cui mi potevano fare fuori i miei. È ufficiale: devo nascere. La prima cosa che voglio fare quando esco è qualcosa. Sono mesi che non faccio niente, non ho mai fatto niente in tutta la mia vita. E appena esco giuro che vado a fare qualcosa, fosse l’ultima cosa che faccio.
Febbraio
Qualcuno là fuori piange. Non so chi sia, mi pare una voce di donna. Ogni tanto piange, ma non parla, forse è da sola e non ha con chi parlare. Intanto qui dentro ho realizzato un paio di cose: la prima è che sono maschio, la seconda è che non ho capito fino in fondo che vuol dire.
La sera sento la musica che esce dal televisore. Lo so perché è musica peggiore del solito, sarà Sanremo.
Marzo
La donna fuori adesso ride moltissimo, secondo me è pazza. Si sente la sua voce che dal niente inizia a vibrare e poi ride sempre più forte. Ride tantissimo e non parla, forse continua ad essere sempre sola.
Dove sono tutti quanti? Non voglio nascere in un deserto dove ci stiamo solo io e questa che passa un mese a piangere e l’altro a ridere.
Aprile
Non fa più freddo. Prima ogni tanto succedeva e ogni volta mi pisciavo addosso. Mi piace pisciare qui, ha un buon sapore.
Maggio
C’è stato un problema, sono nato. Non avrei dovuto, non così presto. Nessuno ha capito niente, men che meno io. Fuori è meglio di come me lo aspettavo, è pieno di gente, anche se molti puzzano. Abito in una scatola di plastica e di cavi, attorno alla quale ci sono delle vecchie che pregano in continuazione. Una cosa che non mi piace è la pipì: quando piscio mi bagno tutto e mi resta pure la sete.
Mia madre prova a schiacciarmi contro il suo seno e mi dice cose gentili per convincermi a mangiare. Io non mangio mai, dicono che sono troppo piccolo e non ce la faccio. La verità è che il latte non mi piace, preferisco la pipì, ma non me la vogliono dare.
C'è una suora che gira intorno a me e a mia madre, spesso le dice: “È inutile che gli parlate a quella creatura, tanto non vi capisce”. E anche se non è vero decido che sarebbe stato così per sempre.
Giugno
Il giorno che faccio un mese fuori è lo stesso in cui muore Enrico Berlinguer. Vivo in una casa in campagna e la notizia mi arriva da un piccolo televisore in bianco e nero con l’antenna orientabile. È un apparecchio che non c’entra niente con quegli anni, ma deve essere parte di quella casa, di quei mobili, di anni passati che non si è saputo dove mettere. È un posto di campagna in estate, ed è la mia prima casa. Mi illudo che la vita sia tutta così.
È passato un mese e ancora non ho fatto niente. Avrei dovuto fare subito qualcosa ma mi pare di essere in ritardo; qui sembra che ogni cosa sia già stata fatta, già sono arrivati alle pubblicità e alle tangenti. Che mi posso mai inventare? E poi non ho avuto veramente tempo: la prima settimana stavo morendo prematuro, la seconda pure, poi è venuta a trovarmi un sacco di gente. Io per fare c’ho bisogno di concentrarmi, qua non ci sono le condizioni per fare veramente le cose e per diventare qualcuno. Me ne devo andare il prima possibile.
Aspetto il momento adatto, mi pare meglio. E capisco che la mia è proprio una posizione giusta, generazionale. Prima di fare qualsiasi cosa, aspetta.
Luglio/Agosto
La vita mi piace. Il mondo lontano vive in tensione ma qui in campagna non arriva niente. Nel giardino abita un cane che si chiama Dick. Qualcuno lo ha chiamato così, cazzo.
È un’estate bellissima, non fa troppo caldo. Un po’ di persone vanno e vengono in questa casa in mezzo al niente, e ognuna di loro parla. Siamo pieni di parole, penso. Da che sono fuori non ho più sentito gente piangere o ridere in maniera incontrollata. Però sento sempre una marea di parole, tantissime, tutti se ne circondano. Immagino che tutto questo debba avere per forza a che fare con il significato del mondo: se esistono così tante parole e se tutti le usano così dev'essere perché ogni cosa ha un senso, una ragione, e tutte queste parole servono a cercarla.
Quando si è vivi tutto vuole avere una ragione, e perciò ci sono così tante parole, e soprattutto nessuno piange o ride più senza un motivo.
L’estate che attraverso è facile, in una campagna vuota di eventi e riempita dalle frasi di tutti, dalla televisione e dalla politica, da Maradona che arriva a Napoli. Decido che voglio vivere così per sempre: in campagna e in estate. Appena comincio a camminare, penso, mi arrampico su un albero e non scendo mai più.
Settembre
Trasloco in città, in vista dell’autunno.
Ottobre
Quando sono uscito ero sottopeso. Ero uno di quelli che dentro stava male. Fuori mangio e vivo questa vita provvisoria, senza pensare troppo alle parole che mi dicono, a tutte le parole che non so ancora. Pannolini, merendine, pastina, Boccaccino. Tutto è piccolo, tutto è diminutivo.
Un uomo arriva a casa nostra ogni sera da Napoli e se ne va ogni mattina. Quando ci trasferiamo in città, entra anche nella nostra nuova casa. La prima sera va in soggiorno e mette un disco dei Van Halen. Mi affascina e al tempo stesso, se potessi, lo ucciderei. Non capisco se abita a Napoli e viene a dormire qui, oppure se abita qui e va a vivere a Napoli. Perchè non resta lì è basta? Perchè torna a dormire tutte le notti con mia madre? È questo quello che chiamano amore?
Novembre
In questa città fa molto freddo e c’è la nebbia. Le persone non escono di casa, o almeno io non le vedo. A pensarci bene sono io a non uscire mai di casa. Sono nuovamente recluso. Prima era la vulva, adesso è la porta di ingresso.
Ci ho pensato e da grande voglio fare il capotreno. È un mestiere importante, o forse no, però sicuramente un capotreno è costretto ad uscire sempre, pure con la nebbia, pure se fa freddo, pure se c’ha una vulva da attraversare. Se sei capotreno uscire è imperativo: te ne devi andare ogni mattina.
Novembre non è stato un gran mese, non è successo molto.
Dicembre
Finalmente basta 1984. Ormai mi muovo a quattro zampe, sui tappeti e sul pavimento freddo. Sulla polvere che mia madre non è riuscita a vedere, sotto i tavoli e le sedie, sotto i neon di cucine sempre troppo buie.
L’uomo che viene da Napoli tutte le sere mi sta più vicino, è spesso a casa, gioca con me nei giorni prima di Natale. Mi chiedo se nel resto dell’anno sia capotreno, almeno lui costretto ad andare lontano ogni giorno. E mentre me lo chiedo una bomba esplode. È quasi Natale e muoiono subito quindici persone. Succede proprio su un treno, mentre attraversa un tunnel sotto l’Appennino. A dare l’allarme è un signore che si chiama Gian Claudio e che nella vita fa il controllore. Scende e chiama i soccorsi con un telefono di servizio che trova nella galleria. Al telefono spiega prima di tutto che controllore o capotreno a questo punto non fa molta differenza, che si tratta del Rapido 904 tra Bologna e Firenze, che è esplosa una bomba messa da Cosa Nostra e che ce ne saranno altre. E dice di fare presto, che ci sono centinaia di feriti ovunque e che ci sono stati pure i servizi segreti deviati, e c’è stata la commissione parlamentare sulla P2. Dice che sono tutti in trappola nel tunnel e che hanno bisogno di uscire fuori al più presto, anche prematuri non fa niente, per andare a vivere in una casa in campagna d’estate, con tutte le parole che cercano in continuazione un significato.