Involviamoci. Torniamo al mondo vicino, sostenibile, quello senza aerei né telefoni, alla musica sui giradischi. Torniamo alla vita agra, fatta di provincia e democrazia cristiana. Torniamo al senso del lavoro, ai mestieri veri, concreti. O magari torniamo più indietro, ad essere piccoli regni, all’essere sudditi per davvero e non mascherati da cittadini, al brigantaggio, alla prossimità delle comunità locali, al sapersi riconoscere e all’appartenersi. Torniamo a mangiare bene, solo quello che sappiamo produrre e che sappiamo cucinare. Patate, fondamentalmente patate. Ancora più indietro: torniamo a mangiare pochissimo per mancanza di alternative, per scarsità, non per dieta. Torniamo al fuoco acceso, alla stalla, alla campagna, ai campi, alla natura. Ancora prima, ancora meglio: torniamo alle caverne, alla paura dei fulmini, ai piedi scalzi, all’essere neonati uccisi da una febbre, torniamo all’autenticità.
No, ragà. Non si può fare. Alle caverne e all’autenticità ci tornate voi, se ci riuscite, io detta così non me l’accollo. Però forse me l’accollo detta in un altro modo.
Il progresso è un pacco, certamente. Detto in parole più comode: nella maggior parte dei casi, il progresso tende a risolvere i problemi che esso stesso ha creato poco prima, e spesso si perdono per strada cose che finiscono per mancarci. In questo periodo, ad esempio, il progresso si trova con la rogna di far campare insieme otto miliardi di persone, dieci miliardi dopodomani, tutte che proprio non vogliono morire mai. Siamo tutti lì in ansia a cercare di capire come ci riuscirà. In qualche modo ci riuscirà, tagliando da qualche parte, ma ce la può fare.
Adesso, io per primo sento una certa nostalgia di diverse cose che ci siamo lasciati alle spalle a cui sarebbe bello ritornare. Anzi sento più di una certa nostalgia: un mondo meno incasinato di questo io lo desidero proprio, anche dovendo rinunciare ad un po’ di cose.
Il problema di questo mio desiderio è che si basa su due elementi scricchiolanti. Il primo è l’idealizzazione di un certo modello di vita, il modello di vita “naturale”. Gli uomini — e soprattutto le donne — negli ultimi millenni si sono inventati la civiltà, che è proprio il contrario della natura. Tutto quello che abbiamo sempre fatto per stare bene è stato modificare e allontanare la natura, addomesticarla, associarci in gruppi sempre più numerosi per poterla dominare. Alla fine siamo diventati degli esseri totalmente incompatibili con l’incontaminato e il selvaggio, e quando ci immaginiamo felici in una natura il più possibile non antropizzata, ci stiamo evidentemente prendendo un po’ per il culo. È probabile che passare una settimana da soli nella giungla sia un’esperienza liberatoria, ma se ce ne passi tre probabilmente diventa un’esperienza liberatoria per la giungla, nel senso che ti leva di mezzo, a te che arrivi da Ballarò o dal Pigneto. Perchè, checchè se ne dica, Ballarò non è la giungla (figuriamoci il Pigneto).
Quello a cui facciamo riferimento quando aneliamo un’involuzione, un rallentare, è molto più probabilmente questo: una fattoria in Islanda, i cavalli fuori, i libri, la pesca nel fiordo, le sigarette, il cappello di lana, il wifi per lavorare a distanza facendo il sorvegliante di automi, un’automobile forse elettrica per andare al paese vicino a comprare gli assorbenti, cose così. Già mi sembra una strada più verosimile, prima di tutto perché non ci illudiamo sulla nostra natura autentica e selvaggia, e poi perché sembrerebbe essere un modello equilibrato nel presente, e forse nel prossimo futuro.
Però c’è il secondo problema, eccolo che arriva, ci riflettevo l’altro giorno mentre mi accorciavo la barba. Mi sa che in Islanda non ci sono abbastanza fattorie sui fiordi per tutti. Come no? Eh, no. Vabbè allora prendiamoci tutta la Scandinavia, la Scozia, l’Alaska! A parte che non so se gli scandinavi possano essere così disponibili, ma il fatto è che comunque siamo otto miliardi. Dobbiamo fare otto miliardi di fattorie sui fiordi? Tutti a pescare con la barchetta? Poi diventa la costiera amalfitana. Non è reale, è una pubblicità.
E infatti il problema è che è una pubblicità. E come tutte le pubblicità sponsorizza un prodotto che in molti vogliono, ma non ce n’è per tutti. Al momento, anche lasciando stare l’Islanda e i fiordi, non sarebbe per niente semplice portare otto miliardi di persone a vivere dignitosamente in campagna. E a questo punto chi tieni fuori? Chi è che non si merita una vita da pubblicità? Chi ti puoi permettere di lasciare in questo presente mentre tu viaggi indietro nel tempo, in maniera selettiva, evitando di ritornare ad essere servo della gleba o cavernicolo e ritirandoti nella tua villa in collina in autarchia biologica? E se in questo presente ti ci lasciano invece a te, a dormire di fianco all’Ilva, mentre tutti vanno a piantare l’insalata? Come la prendi?