Resoconto di come abbiamo salvato il mondo
Il potere ha sempre cercato una buona scusa per imporsi. Questa volta ne ha trovata una ottima.
Tra la fine del ventesimo e la prima metà del ventunesimo secolo la consapevolezza ecologista cresce nelle persone, in maniera trasversale e diffusa: aumenta sempre più velocemente la voglia di agire - come spesso accade quando ci si avvicina ad una scadenza - anticipata da una certa preoccupazione per il futuro e per la fine del mondo come lo si conosce. Le persone si convincono che l'ambiente naturale va tutelato e progressivamente ne fanno una priorità personale e sociale, una priorità che ad un certo punto si trasforma inevitabilmente in politica. Le scelte pubbliche iniziano ad attaccare gradualmente il problema, dapprima solo a parole, poi in maniera sempre più incisiva.
La dinamica generale vede tre attori principali: le aziende che producono, gli individui che consumano, lo Stato che amministra il benessere.
La coscienza ecologista e l'opinione pubblica generano lentamente politiche che spostano la responsabilità dell’impatto ambientale sempre più verso le aziende. Un esempio è quello che succede tra il ventesimo e il ventunesimo secolo con la gestione dei rifiuti. Inizialmente le aziende producono senza una soglia, spingendo i consumi alle stelle con la pubblicità e con la connivenza dello Stato, la cui economia si basa strutturalmente sui consumi. Lo Stato, si fa carico in toto della gestione dei rifiuti indifferenziati. Il modello ambientale è la discarica.
Con la nascita della raccolta differenziata il problema si sposta un po’ più vicino a dove nasce, dallo Stato al consumatore. È il consumatore ad essere costretto a prendere coscienza dei rifiuti che produce, a differenziarli, a rendersi conto che ogni cosa che acquista andrà prima o poi smaltita. Questo "sentire il problema" è accentuato molto da una grande severità dello Stato che punisce i comportamenti sbagliati del consumatore.
Intanto le aziende continuano la produzione indiscriminata, raffinando il nuovo rapporto tra persone e consumi attraverso nuovi marketing, ma sostanzialmente il problema dei rifiuti - del dove vanno a finire tutte le cose prodotte e consumate - continua a non essere loro.
Ci si accorge così che il grosso dell'impatto ambientale dipende dalle decisioni di poche corporation o Stati sovrani: il sistema è viziato nella struttura più che nei comportamenti delle persone.
Col passare degli anni i risultati continuano ad essere insoddisfacenti, soprattutto per una demografia sempre in crescita e un'economia che non accenna a rallentare. Il problema ambientale diventa così il primo e unico argomento sull'agenda pubblica. Le aziende diventano le principali responsabili dei rifiuti e devono fare i conti con lo smaltimento dei loro prodotti. Pagano tasse altissime in base alle vendite e in base alla natura dei prodotti. Molte si ingegnano per vendere prodotti con il minore impatto ambientale possibile, per davvero; e alcune addirittura puntano a vendere meno, producendo merci che durano di più e magari vendendo a prezzi più alti; tantissime chiudono. Continua a non bastare.
Lo Stato è ormai totalmente dedito a risolvere il problema ambientale, lungamente trascurato, e forse ormai diventato irrisolvibile. L'interesse delle aziende è messo quasi totalmente da parte, superato da interessi politici di altra natura. La società si stringe tutta attorno all'ultima possibilità di salvare il pianeta. È chiaro che l'unico modo per farlo non è cambiando il modo di consumare cose, ma smettendo di consumarle; non è cambiando il modo di stare bene, ma iniziando a stare meno bene. Il livello di benessere raggiunto dall'occidente non può essere ancora tenuto, né tantomeno ulteriormente diffuso, soprattutto visti ormai i dieci miliardi di persone sul pianeta.
Il potere ci dice che se non si vogliono guerre, se non si vogliono genocidi e carestie sempre più pesanti e diffuse, bisogna accettare di stare peggio, di rinunciare a pezzi del proprio comfort per poter vivere tutti. Vivere insieme tutti, a livelli comunque accettabili di benessere, ma sacrificando qualcosa. L'ecologia diventa il perno attorno a cui ruotano le vite delle persone del ventiduesimo secolo.
Si è arrivati ad un centimetro dal collasso, e lo si sta ritardando anno dopo anno. I margini sono piccolissimi, ma col sacrificio di tutti in qualche modo si fa. La vita è morigerata e le carriere non sono più un valore. Non esistono quasi più lavori creativi. I consumi, così come i viaggi, sono attentamente monitorati, la pubblicità si è drasticamente ridotta. Le campagne e le aree interne si sono ripopolate, nelle città le macchine non si muovono quasi più. Il grosso delle persone fa una vita di prossimità, senza bisogno di grandi spostamenti, che sono sconsigliati e scoraggiati.
La sorveglianza sull’impatto ambientale è altissima in ogni ambito, tutti sono riusciti ad essere più poveri, l'ecologia è una dittatura.
Non è stato difficile generare consenso e sottomissione: le persone non chiedevano altro che decrescita - salvezza - anche a fronte di una diminuzione di libertà e di felicità individuali. Nel ventiduesimo secolo il potere tiene in gioco se stesso gestendo un’umanità in bilico tra la sopravvivenza e il collasso.
Continuiamo ad affidarci al progresso e alla sua precarietà, ma mentre il progresso del passato ci permetteva ogni anno di crescere un po’ di più, di stare un po’ meglio, di sconfiggere un po’ di più il nostro essere animali, oggi lavoriamo per provare a perdere qualcosa ogni anno, per tentare di ridimensionare quel nostro essere uomini, in cui forse abbiamo esagerato. Ogni anno si cerca di capire se si è riusciti a fare quell’ulteriore passo indietro, sempre incerto e difficile. Ogni anno non è mai quello giusto, bisogna perseverare negli sforzi e nelle rinunce, a pagare l’obolo al pianeta. Siamo stati troppo avidi e adesso dobbiamo riparare, accomodare le cose. Ogni anno un pezzo in più, ogni anno un pezzo in meno. Arriva la fine del mondo ma il potere resta sempre il potere.