Una volta tra amici abbiamo fatto una maglietta con su scritto: "Più Ghirri, meno sbirri". L'abbiamo prodotta all'interno di un progetto spontaneo e goliardico che si è chiamato - o forse si chiama ancora - La Cameretta Chiara: una breve serie di incontri in diretta su YouTube in cui prendevamo poco sul serio il mondo della fotografia italiana, e soprattutto noi stessi. Quella maglietta ha avuto un discreto successo nel nostro giro, io però l'ho messa una sola volta.
Ero uscito a bere qualcosa, preso bene anche dal fatto che fosse una delle prime volte dopo il lockdown del 2020 - quanti ricordi - e stavo tornando a casa con questa fantastica scritta sul petto che, per la verità, non aveva trovato complicità in nessuno (qualcuno, al massimo, mi aveva chiesto che cosa fossero i "ghirri"). Abito esattamente di fronte alla prefettura di Palermo, che tra l'altro confina con una grande caserma della guardia di finanza. Quando mi avvicino al palazzo vedo che, esattamente davanti al mio portone, la strada è piena di polizia, carabinieri, fiamme gialle, vigili del fuoco, unità cinofila, paramedici e forse pure la digos e qualcuno dei servizi segreti. C'erano diversi mezzi, ognuno col proprio brand, un sacco di uniformi, e una certa quantità di gente in borghese. A dirla tutta però non sembrava una situazione tesa: la strada non era bloccata, si passava, e tutti parlavano tra loro con il normale tono palermitano, cioè urlando. Insomma, sembrava più un raduno delle forze dell'ordine che un'emergenza.
Come scopro quasi subito, tutto era scattato a causa di una vecchia auto parcheggiata proprio di fronte al mio portone, che per qualche ragione era stata segnalata per un allarme bomba. Trovandosi di fronte al Ministero dell'Interno era indiscutibilmente un’emergenza, e si è pensato bene di far confluire sotto casa mia, in piena notte, una serie spropositata di soggetti armati che, giusto giusto, erano anche l'oggetto dell'irriverente maglietta che portavo in quel momento.
Faccio per entrare nel portone e mi si avvicina un vigile del fuoco (che non è uno sbirro, letteralmente), seguito da due poliziotti (che invece letteralmente lo sono) che mi osservano più da un metro più indietro. Il pompiere mi chiede informazioni sull'auto, se la conosco o meno, mi tranquillizza sul fatto che probabilmente si tratta di un falso allarme, insomma ci scambiamo due parole mentre tutto il resto del mondo mi guarda fisso, senza più urlare, formando una sorta di semicerchio ad una ventina di metri di distanza.
Lì per lì, non mi viene in mente il perché di tanta attenzione. Le due chiacchiere col pompiere finiscono, me ne salgo a casa, mi spoglio e mi butto a letto in mutande. Fa il caldo che non si dorme e così sto sveglio a pensare che per fortuna non è esplosa nessuna bomba.
Da quando, il giorno dopo, mi rendo conto dello scherzo che mi aveva fatto l'universo, decido di non permettergli altre repliche: con quella maglietta non ci esco mai più. Metti che la prossima volta la bomba è vera e io mi ci trovo davanti solo perché l'universo ha deciso di rendermi ridicolo davanti a commissari e marescialli?
L'unica volta che sono stato tentato di rimetterla è stato un paio di mesi fa, quando mi chiesto di intervenire al Festival Documentaria per la proiezione di “Infinito - L’universo di Luigi Ghirri”, un film di Matteo Parisini. Mi hanno invitato a esserci in veste di (immancabilmente giovane) fotografo che si occupa in qualche modo di paesaggio, credo. O forse solo di quello che parla assai. Non l'ho messa, la maglietta, anche perché era inverno e mi sono detto che quella era una t-shirt da festival estivi, che comunque sarebbe stata nascosta da un maglione, che non volevo passare proprio per giovane-giovane, che esistono dei fotografi adulti, non solo vecchi e bambini. Nascondevo insomma la mia stupida scaramanzia dietro un buon senso ancora peggiore.
Devo ammettere che riguardo Ghirri avevo una marea di cose da dire. Beh, in effetti non tanto su di lui, perché non so molto di Ghirri nello specifico. Diciamo che c'avevo un sacco di cose da dire a prescindere. E penso di averle dette tutte insieme in un unico sfogo imprevisto, come risposta alla prima piccola domanda che mi è stata fatta, una del tipo: "Ma tu che sei un (giovane) fotografo di questi anni pensi che Ghirri sia ancora attuale per le giovani generazioni?". Non era proprio così - mi scuso con Joshua che moderava se l'ho riportata male - ma voglio dire che era solo uno spunto, una domanda per rompere il ghiaccio, a suo modo aperta e volutamente prevedibile. E io non l'avevo prevista. Con il senno di poi avrei dovuto rispondere semplicemente, con le parole di Beppo Pontiggia, che rispetto all'attualità dei classici dovremmo chiederci piuttosto se siamo noi ad essere davvero attuali quando rileggiamo i classici.
Non sono mai preparato alle cose semplici, e a quella domanda passo un paio di secondi in silenzio in cui mi chiedo, mentalmente: E ora che faccio, rispondo? Ma posso mai cavarmela così? E che sono venuto a fare? E tutto questo oceano di cose e di sentimenti che non so mai a chi dire, se non li dico nemmeno adesso che nessuno mi interrompe, quando? No, certo che non voglio raccontare i fatti miei. Parliamo di Ghirri e del film e della fotografia di oggi e di questo mondo in cui quando qualcuno è bravo è sempre il caso di sottolineare che non è un fotografo. Anche nel film viene fuori spesso, ad un certo punto Quintavalle dice "Attenzione che Ghirri mica era solo un fotografo, lui pensava!" E me questa cosa fa molto ridere. Pure Ghirri stesso, alla fine del film, dice io sono metà fotografo e metà persona. È strano che bisogna davvero metterlo in chiaro. Non è che per un grande compositore, o regista, o scrittore, si senta il bisogno di chiarire la stessa cosa. Ma la fotografia sembra essere sempre una dimensione riduttiva, vive sempre questa sua insufficienza, questo complesso di inferiorità. E c'ha ragione a viverlo, e lo capisco molto bene che uno se ne voglia affrancare certe volte. E se la situazione è questa, se davvero la fotografia è un ambito così limitante, allora certo facciamo bene a tirarne fuori Ghirri, lui più di molti altri. Perché davvero con lui è stato evidente che fare fotografie significava mettere insieme una visione del mondo.
Quando fotografiamo, in particolar modo un paesaggio, in effetti noi non stiamo raccogliendo niente. Sicuramente isoliamo qualcosa, ma quello che viene fuori non è tanto un pezzo di mondo che abbiamo prelevato, quanto soprattutto una proiezione del nostro sguardo sul mondo. È un rapporto che forse va nella direzione opposta a quella che spesso immaginiamo, soprattutto per via della fotografia come testimonianza. Tutto questo suona certo come una cosa stucchevole e fine a se stessa: "Quando facciamo una fotografia stiamo depositando più che raccogliendo, ah quanta poesia!", eppure ha una sua ragione: la realtà, il mondo, non ha alcuna intenzione di essere raccontato o rappresentato. Indipendentemente da quanto possa sembrare il contrario, il mondo intorno a noi non si mette in posa. Noi invece sì, quando osserviamo. E questa posizione Ghirri la mostrava in maniera molto bella. Non lo so se è ancora attuale, ma spero di sì. Di certo se mi fossi messo la maglietta avremmo parlato di quella, avrebbe attirato tutta l’attenzione e ce ne saremmo usciti tutti puliti. Maledizione.