Ho fatto un oroscopo per alcune settimane, un oroscopo audio, un podcast.
È venuto fuori quando un amico che collaborava con una radio di informazione online mi fa: « Partecipa alla radio, ti va? Perchè non ti inventi qualcosa?».
Io mi sono ricordato di quelle volte che in classe facevo lo spiritoso. I miei compagni ridevano o mi prendevano per il culo — un contesto fantastico dove ridere di e ridere con erano praticamente la stessa cosa — e Maria Cristina, che era una ragazza molto bionda, sempre attenta al proprio e all’altrui aspetto, mi diceva « Certo che dovresti proprio fare radio ».
Lo diceva per farmi un complimento. Sorridevo, non tanto per il complimento, ma perché pensavo che era come ascoltare un’intervista ad un’attrice straniera con la traduzione simultanea: la voce dell’interprete era chiara e in primo piano: “Dovresti fare radio”. Quello era il messaggio tradotto, inequivocabile. Ma la voce sotto, l’originale a volume molto più basso, in effetti stava sussurrando: “Sei simpatico, peccato che sei un cesso”. Quello era il significato. Quante cose ci perdiamo con le traduzioni in simultanea, pensavo.
Comunque, l’offerta concreta di registrare la mia voce mi imbarazzava: « Macchè, io non mi ci metto a fare queste cose, mi vergogno. Poi che tipo di informazione posso fare? Non la so fare informazione, non sono il tipo, al limite posso fare una cosa leggera, posso fare l’oroscopo ». E così davvero ho fatto un oroscopo.
Non era una roba che aveva a che fare davvero col destino e il cielo, aveva forse più a che fare con lo stare in casa durante una pandemia, e vivere i disastri dentro per non vedere quelli fuori. Quell’oroscopo si è chiamato Disastrologia, ed è stato l’inizio di un format, ma non lo potevo sapere. Quello che sapevo è che sarebbe stato un modo per tenere il morale alto e per fare qualcosa di diverso dallo stare chiusi in casa a fare i genitori. Non è andata così. È stato subito evidente che registrare una qualunque cosa, in un momento qualunque della giornata, e in qualunque punto di casa mia, dava sempre l’impressione che io abitassi dentro un asilo. Genitore totale e per sempre. Poi magari anche altro, ma intanto, fortissimo, padre.
Per questo motivo l’oroscopo che ne è venuto fuori è stato esplicito: la voce di una coppia ostaggio dei propri figli. Se non puoi sconfiggerli, sfruttali.
Le puntate hanno seguito un po’ il trend dei contagi e dell’isolamento: grande entusiasmo all’inizio, picco di follia in mezzo, e poi un calo fisiologico della motivazione. Però almeno la cadenza è stata piuttosto regolare, a parte forse la settimana in cui con Nina, per fare qualcosa di diverso, siamo stati a vedere com’era il pronto soccorso dell’ospedale pediatrico di Palermo. E quindi mi sa che quella puntata è saltata.
In quella settimana ci eravamo resi conto del momento storico che stavamo attraversando. Noi come famiglia ci teniamo a vivere appieno la nostra epoca, ad approfondire ogni situazione, a non lasciarci scivolare addosso gli eventi: che fai, ti capita la possibilità di vivere in un periodo del genere e non ti vai a fare nemmeno un tampone? In quei giorni i tamponi erano rarissimi, confusionari, ansiogeni. Fare un tampone era una roba epica, e così quando abbiamo avuto la possibilità di essere epici ne abbiamo approfittato.
Nina stava tutto sommato bene, ma aveva tosse ormai da tre settimane. Io e Antonella siamo ormai abituati al fatto che i figli generalmente arrivano sempre un po’ difettosi, quindi ci facciamo poche paranoie (non è vero, solo io mi faccio poche paranoie). Però Nina in particolare ci è arrivata con una sorta di piccola fragilità respiratoria, è andata in assistenza già un paio di volte e sto ancora combattendo con la garanzia (dopotutto è praticamente nuova). Insomma, visto tutto questo abbiamo iniziato a fare telefonate, ed è venuto fuori che: la pediatra non voleva visitarla (pare che Ippocrate stesso dicesse che va bene tutto, però i malati no), la guardia medica non poteva visitarla non ho capito per quale capriola burocratica, e l’unica cosa da fare era andare al pre-triage all’esterno del pronto soccorso.
La porto, non la porto. La porto.
Erano i giorni in cui le strade erano vuote e paradossalmente, per fortuna, i pronto soccorsi pure. Dopo aver parcheggiato mi avvicino alla tenda azzurra con la bambina in braccio.
« Altolà! »
« Chi è? Che ho fatto? »
« Quella bambina che ha in braccio. Chi è? È sua? »
« Sì, è mia. O almeno così mi ha detto la madre. »
« E che intenzioni ha, perchè l’ha portata qui? »
« Niente, ha un pò di tosse. »
« Tosse? Ha detto tosse? »
« Stiamo parlando a quaranta metri di distanza, ci sta sentendo tutta Palermo, non potremm… »
« Cosa? Non la sento! Parli più forte! »
« Sto già urlando! Tosse! Tosse! »
« Non si muova! Metta la bambina per terra e le mani dietro la nuca. »
« Le mie o quelle della bambina? »
« Tutte e due! »
« Quattro. »
« Cosa? »
« Quattro mani, due io e du… »
« Silenzio! Aspetti immobile, che ora parte il protocollo. Sta arrivando la pediatra vestita da astronauta. »
In altre parole, il clima era come quello di Monsters and Co. (chi non l’avesse visto sappia che lo invidio moltissimo, per la scoperta e la meraviglia che lo aspetta). C’è un mondo di mostri che fanno una vita tutto sommato normale: vivono nelle case, abitano le città, guardano la tv, vanno a cena fuori. Interagiscono con il mondo dei bambini in effetti solo per spaventarli (è quello il loro lavoro, dagli spaventi ricavano energia elettrica, come noi dal carbone). La cosa divertente è che questa società mostruosa è terribilmente spaventata proprio dai bambini, li crede tossici, radioattivi, pericolosissimi. Vanno assolutamente tenuti a distanza, non ci dev’essere contatto. E quando ad un certo punto una bimba piccola riesce per sbaglio ad entrare nel loro mondo si attiva tutta una macchina del panico: allarmi, elicotteri, sirene, tute protettive, squadre speciali, bonifiche. Mostri paurosissimi, fatti per spaventare i bambini, cercano di difendersi in tutti i modi da una pupa che si fa i fatti suoi. Come se li faceva Nina, con i suoi due anni e con la sua timidezza ormai dimenticata. Era la più tranquilla all’interno di quella tenda blu, serena e disponibile, nonostante i mostri intorno. Forse proprio perchè vedeva che erano tutti terrorizzati.
All’interno del pre-triage gli astronauti si muovevano lenti, attentissimi a protocollare ogni azione, ogni distanza, ogni tocco. Io mi trovavo nella tragicomica situazione in cui dovevo tenere la bambina mentre veniva visitata e stare contemporaneamente ad un metro e mezzo di distanza da qualunque essere vivente. La visita, che una volta tanto era piuttosto accurata, alla fine sembrava più una partita a Twister. Tra mascherine, tenda blu, posizioni sterili, firme, ricoveri, tamponi, protocolli, io sudavo come un maiale. I medici erano ossessionati dal protocollo. Il protocollo come unico modo di uscirne vivi. La via, la verità e la vita. Alla fine dopo un’ora, quando tutto era ormai alla fine, mi sento di dire, sommessamente:
« Scusate, io vorrei sapere una cosa se è possibile. Cioè, massima disponibilità per il protocollo: il tampone l’abbiamo fatto, le regole le abbiamo seguite, le cambiali le ho firmate, a sudare abbiamo sudato. Totale responsabilità, ci mancherebbe, sono un cittadino coscenzioso. Ma la bambina come sta? »
« In che senso. »
« Nel senso che io non è che sono venuto qui proprio perchè a casa sentivo tutta questa mancanza di un protocollo. Che dicevo mannaggia che non c’ho un protocollo da rispettare, mo che faccio? Dove vado a firmare qualche carta? Nina vuoi venire con papà a cercare un protocollo? E poi ho trovato a voi. Cioè io lo capisco che poi uno qui sta attento, ci mancherebbe, ma io ero venuto per sapere come sta mia figlia. Insomma se è possibile. Sennò va bene uguale, sennò mi accontento pure dell’esperienza in generale, che comunque è stata bella. »
E in effetti lo è stata, soprattutto perchè alla fine in tenda si sono messi pure a ridere un poco.