Esistono traumi, tradimenti e violenze assoluti, fuori dal tempo, a prescindere da tutto? Non credo, non lo so.
Ogni vittima determina la misura del proprio dolore. Solo chi subisce una violenza, un tradimento, un raggiro, un ceffone, può dire se e quanto male gli ha fatto. Il “Ma non ti ho fatto niente, alzati, non fare scenate dai!” è lecito solo quando si gioca a pallone, dove si sa che le simulazioni sono parte integrante del teatrino e si tenta sempre di smascherarle. In tutte le restanti situazioni si dovrebbe partire - non certo per fare le regole sociali, ma sicuramente per pensare i comportamenti di ognuno - dal fatto che se hai ferito una persona lo sa lei, non necessariamente tu.
Prendiamo ad esempio il tradimento in una coppia. In due si parla e ci si confronta, quindi ci si condiziona e si cambia insieme, ma nonostante questo è verosimile che anche nella stessa coppia esistono soglie diverse oltre le quali sentiamo che l’altro ha tradito la nostra fiducia. Ci sono persone che stanno male dopo aver saputo di un bacio di troppo, altre dopo uno sguardo di troppo, altre ancora tollerano senza paranoie una scappatella, purché non diventino due o tre. Ognuno immagina e teme una qualche forma di amore migliore per il proprio partner, ognuno si sente squalificato o escluso con i propri tempi. Al di là dei ragionamenti che ci possiamo fare intorno, non credo che il punto sia mai determinare chi c’ha ragione, ma riconoscere una sofferenza. Capire che qualcuno sta male davvero, senza per forza giudicare quel dolore. Tralasciando le menzogne e i vittimismi che pure ci sono (sono abusi pure quelli, come le simulazioni a calcio) dobbiamo considerare le ferite che le persone si scoprono addosso come autentiche, anche se ci possono talvolta sembrare esagerate, incomprensibili, ingiustificate. E da qui mi vorrei spingere in ambiti molto più controversi e pericolosi.
Sempre per restare nell’ambito relazioni - poi ce ne andiamo anche su quello delle violenze più classicamente intese, per non farci mancare niente - sono esistite ed esistono società e culture poligame, dove una donna condivide - deve condividere - il marito con altre mogli. O ancora è esistito fino a pochi decenni fa, in Italia, il delitto d’onore, ovvero la manifestazione più evidente di una cultura dove il rapporto extraconiugale era concepito (e per moltissimi versi è ancora concepito) in maniera praticamente unidirezionale: l’uomo può farsi l’amante, è una tacita consuetudine, la donna no, è una zoccola.
In contesti del genere è evidente che i parametri per definire un tradimento sono o sono stati diversi dai nostri attuali, eppure allo stesso modo condivisi, imposti, diffusi. Questi parametri riescono a determinare e riconoscere il dolore delle persone? Le diverse mogli di un uomo soffrono per non essere le uniche? Si sentono tradite? O ancora, una donna ridotta soltanto alla sua dimensione di madre e di moglie, sessant'anni fa nel Sud Italia, soffriva quella sua condizione come la potrebbe soffrire oggi, nelle medesime condizioni, una donna di Parigi o di Stoccolma? Probabilmente la risposta a tutte queste domande è no: una qualunque delle nostre nonne terrone, negli anni cinquanta, si sentiva meno squalificata di quanto si sentirebbe la parigina media, nella stessa situazione, oggi. E non sto dicendo in alcun modo che nostra nonna non ne soffrisse, in fondo. Quello che sto cercando di dire è che sono le vittime a settare la soglia, e lo fanno in base ad un contesto. Sembra si tratti di una soglia mutevole: la violenza è un concetto anche influenzato dall’epoca, dalla geografia, dall’età, dal genere sessuale. A volte cambia addirittura nella stessa persona in momenti della vita differenti.
E allora dove sta la violenza? Dico la violenza a prescindere. Il trauma universale. L’ingiustizia incontestabile. Dove stanno queste cose? Non stanno da nessuna parte. Il trauma universale non esiste, così come non esiste la giustizia universale o qualunque altro valore universale. Ecco, attenzione a questo: il fatto che non esistano può diventare un grandissimo alibi, e non dovremmo permetterlo. Perchè quello che sicuramente esiste, sono le emozioni che talvolta provochiamo, o che subiamo, indipendentemente dal contesto. Ed è a quello che dobbiamo guardare, in fondo.
I traumi, la violenza, l’abuso e il tradimento sono astrazioni umane. Sono concetti necessari ma inventati, costruiti dalle persone per dare una forma a quel dolore. Così come, seppur bellissime, sono invenzioni la giustizia, il rispetto e la fedeltà. Sono invenzioni, ed è per questo che non dovrebbero essere gli unici strumenti con cui definiamo se le persone meritino o meno il loro dolore. Un comportamento condiviso (che sia legale o meno) non è per forza giusto, o buono. Perché le emozioni che sentiamo e causiamo (gioia, tristezza, rabbia, ecc) abitano diversi piani più in fondo rispetto a costrutti come la giustizia o la consuetudine.
“Non ti ho fatto niente!” E che ce ne facciamo poi delle violenze che non vengono riconosciute tali nemmeno da chi le subisce? Come quelle ai bambini per esempio, o in generale a persone che si trovano in relazioni asimmetriche, tossiche, dispari? Persone che lì per lì danno per scontato un certo comportamento, e che dal loro punto di vista (per questioni di età, esperienza, contesto) non pensano di stare subendo qualcosa di sbagliato. Se uno non si fa male, non si lamenta, allora gli puoi menare?
Se è vero che non esiste una forma di tradimento universale, o una forma di abuso universale, se fenomeni come la pederastia ellenica, o i matrimoni combinati con spose giovanissime in Africa, o ancora la dimensione della donna in alcuni fondamentalismi religiosi, ci ricordano tutti che ci sono state (e ci sono) culture capaci di convivere con determinate dinamiche, se è vero insomma che la violenza la definisce un contesto, è altrettanto vero, e direi soprattutto, che il dolore lo definisce la persona che lo subisce. I bambini non lo sanno mai se quello che stanno vivendo è una violenza o meno, se è un abuso o meno (perché in effetti non sanno quasi niente di quello che è giusto e sbagliato). Quello che sanno, in alcuni casi, è che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non gli piace, qualcosa che li fa stare più male che bene.
Può succedere a tutti in effetti, non soltanto quando siamo bambini: si rompe l’immagine di una felicità che ci tenevamo stretti, qualunque essa sia. Si frantuma e noi pian piano, negli anni a volte, ne scopriamo la disperazione.
Credo che sia il caso di ripetere che queste riflessioni non sono adatte, né giuste, in una dimensione sociale, collettiva (che deve dotarsi di valori, di una giustizia, di soglie provvisoriamente universali). Sono però riflessioni credo utili quando tentiamo di muoverci come individui, uno a uno.
Ho parlato assai, anche in maniera confusa, per rendermi conto alla fine che era tutto piuttosto semplice da sintetizzare: se una persona soffre a causa tua, non è che lo puoi raccontare in molti altri modi.