Non suono più il basso da anni. Credo che le mie ultime esperienze più o meno costruttive con la musica si siano verificate a Firenze, prima che partissi per la Danimarca e diventassi un artista ricco e famoso. La carriera mi avrebbe impedito per diversi anni di vivere in una città con continuità, e di conseguenza di suonare con altre persone, ma questo ancora non potevo saperlo. Non mi sono mai illuso di poter vivere di musica - non credo mi sia mai passato per la testa - e nemmeno mi ha mai davvero interessato. La verità è che non ho mai voluto fare musica: ho sempre voluto fare il musicista. Le prove, le serate, i palchi, il backstage, le groupie, la furia e la poesia e il sudore, il pubblico. Sbattersi sul palco più che suonare davvero. Essere applauditi, più che ascoltati. A me quello interessava: la forma, non la sostanza. Comunque è andata così e alla fine non posso dire di aver mai fatto né l’uno né l'altro.
Quindici anni dopo mi ritrovo a raccontare di un approccio simile, che però alla musica (che è l’ambizione di quando c’hai vent’anni) sostituisce l’insegnamento (che a quanto pare è l’ambizione di quando ce ne hai quaranta). Anche in questo caso non mi illudo, né spero, che l’insegnamento diventi mai la mia occupazione principale, però mi piace un sacco atteggiarmi. Anche qui non mi interessa davvero insegnare, mi interessa fare il professore. Il professore di lettere, o di cose umanistiche. Spiegare e raccontare, scherzare, l’attimo fuggente, i voti, leggere cose, la giovinezza degli altri, Silvio Orlando e Robin Williams, l’impossibilità di trasmettere veramente una qualsiasi esperienza, e soprattutto dire ad un genitore, una volta tanto: suo figlio è intelligente ed è proprio per questo che non si applica.
Una delle volte recenti in cui mi sono atteggiato professore è stato a Catania, ad Abadir, Accademia di Design e Comunicazione Visiva. Mi chiamano chiedendomi di fare qualcosa tra la fine di un semestre e l’inizio del successivo, con studenti e studentesse del primo anno. Un workshop che fosse una parentesi, qualcosa di extracurriculare, complementare al loro percorso di design. Magari una cosa sulla fotografia o sulla scrittura. Insomma, un pericolosissimo “fai tu”.
Decido di fare qualcosa che non abbia un senso stretto, o quanto meno una funzione stretta. Penso che possa essere bello in quella parentesi ritrovarsi a fare qualcosa di creativo senza sapere esattamente a che serve. Il workshop si intitola “Vocabolari, manuali d’istruzione e altre storie fantastiche”. Voglio farli soprattutto scrivere, utilizzando magari anche dei trabocchetti per farli esporre sempre di più; sfruttare il loro pensare di stare a scuola per fargli ripescare in effetti cose che a scuola non tirano mai fuori. Li voglio come Willy il coyote che ad un certo punto, in mezzo alla foga di fare e inseguire, si rende conto di essere sospeso nel vuoto, oltre un precipizio. Alla fine è solo un cartone animato, quanto male mai ci possiamo fare?
Cominciamo con esercizi sui mandarini da cui vengono fuori racconti, e osservazioni prolungate di fotografie da cui vengono fuori noie e poesie. Davanti a me ci sono ragazze e ragazzi di vent’anni che vogliono fare i designer di libri, di videogiochi, di gelaterie, di sedie, e che si trovano a scrivere del loro corpo e delle loro emozioni e dei loro ricordi. A che serve dare corpo alle proprie emozioni, se alla fine devo progettare una sedia? Qual’è il motivo per cui progettiamo una sedia? Perchè non ci sediamo per terra? Sei davvero stanco o ti vuoi dare un tono? Sei davvero un insegnante di design? Qual è il sentimento che mi spinge a voler disegnare una sedia? Chi lo conosce quel sentimento? Indubbiamente, prima di chiunque altro, il mio culo.
Dopo il riscaldamento iniziale il workshop è diventato fragrante, e si può iniziare a mordere. Gli dico che è arrivato il momento di prendere e analizzare il manuale Ikea di montaggio. Quello, per intenderci, che si trova in ogni confezione e che ci spiega come trasformare uno scatolone di cartone in una libreria. Cerchiamo di capire il linguaggio e i codici di quel manuale perché, gli dico, dovranno realizzarne uno anche loro: un manuale di istruzioni in stile Ikea. Un manuale senza parole, solo simboli, una lista iniziale di pezzi e strumenti, un focus sui passaggi difficili, prospettiva isometrica, coerenza e chiarezza.
E che cosa avrebbe dovuto illustrare quel manuale? Qual è la domanda a cui avrebbe dovuto rispondere? “Com’è che si fanno i figli?”
Sembra la domanda pretestuosa di uno che vuole solo provocare, uno che vuole esagerare solo per il gusto di farlo. E un poco è vero. Però è anche vero che dopo quella domanda sono successe cose molto belle, grossomodo in quest’ordine.
Silenzio. Sorrisini. Un altro poco di silenzio. L’angoscia di confrontarsi con una roba di cui non si sa e non si vuole sapere niente, un po’ come la termodinamica, ma con dentro molti più tabù e preconcetti. Li vedo spaesati, gli sguardi imbarazzati e sfuggenti, così tanto che ad un certo punto penso di avere spinto troppo, di averli sospesi troppo fuori dalla loro comfort zone, così tanto che potrei anche non tirargli fuori niente. Viene paura anche a me. Che cosa ho scoperchiato? Sono troppo piccoli? Hanno traumi? E se si fanno male?
«Gioventù, ma quanto male ci possiamo fare?» Glielo chiedo direttamente.
«Quanto può essere in fondo difficile e dolorosa questa cosa? Se vi avessi chiesto di progettare un ponte su cui devono passare una serie di ambulanze urgentissime, se vi avessi chiesto di immedesimarvi in questa responsabilità - di cui comunque non sapete assolutamente nulla, perchè non lo avete mai fatto un ponte - non vi avrebbe preso così male. Non avreste avuto tanta paura.»
«Eh prof, ma qui ci sono le emozioni…»
Allora procediamo.
Tutto quello spaesamento iniziale è dovuto alla mia richiesta paradossale: immaginare e disegnare un manuale di istruzioni per una cosa che è irriducibile ad una serie di passaggi. Diventare genitori è un discorso che può comprendere moltissime cose. Certo, il sesso e la biologia. Ma pure il conformismo, il diventare grandi, la procreazione assistita, la gestazione per altri, l’adozione, le coppie omogenitoriali, il lavoro e la carriera, i soldi, l’amore, la fine del mondo e l’estinzione umana, e altre cose che a me non vengono in mente ma a loro sicuramente sì. Non si può ridurre tutto ad un manuale.
La scelta di lavorare su Ikea non è stata casuale. Ikea non fa altro che semplificare paradossalmente la complessità di cose come il diventare grandi, o il fare nido, o progettare uno spazio di lavoro, ecc. È un’azienda che, al di là dei mobili economici, propone soprattutto degli stili di vita, da poter in qualche modo montare a casa. All’Ikea trovi dei teatri, delle scenografie perfettamente riproducibili, dove inscenare la tua vita, che tu sia uno scapolo artista, una coppia di giovani professionisti gay, o una famiglia disperata e al verde. Per quanto sia un’azienda molto attenta a tutti i trend demografici e a tutti gli orientamenti, e rispettosa delle minoranze e delle diversità, inevitabilmente produce una proposta che semplifica tutto. A guardare bene, la complessità di certi processi e di certe scelte si riduce così tanto che tutto diventa fittizio e impossibile, come un manuale per fare (o non fare) figli.
Comunque alla fine, dopo la paura del vuoto, sono venute fuori delle cose molto belle.