Luoghi comuni
“Nell’illusione che ciò che siamo riusciti a dire, fosse ciò che avevamo da dire.”
Dal testo introduttivo di “Truth or Consequences”- R.Boccaccino, Skinnerboox, 2020.
A raccontarle velocemente, tutte le cose sembrano ovvie: ogni persona diventa un personaggio, ogni luogo soltanto un posto, e ogni vita si riduce ad una vicenda. È normale che sia così, è il compromesso che troviamo ogni volta che cerchiamo comprensione.
La verità è che le nostre esperienze — le cose che ci succedono, e il modo in cui noi accadiamo nelle vite altrui — sono cose quasi sempre così molteplici e precarie che è complicato anche solo immaginarle, figurarsi metterle in parole. Di conseguenza, nel provare a raccontarle con attenzione, è come se ci si accorgesse di avere a disposizione un vocabolario limitatissimo che a volte sembra addirittura fatto per altro. È come dover comporre una poesia con quello che troviamo su uno scontrino, o su un mappamondo. E in questa scarsità dobbiamo scegliere le parole una ad una, e metterle insieme nella speranza di perdere meno pezzi possibili. Nonostante sappiamo che il senso si perderà dentro tutte le parole che non abbiamo saputo trovare, speriamo di fare come per le costellazioni, dove i pochi punti presi tra quelli disponibili disegnano un’immagine. È però una consolazione da poco: anche in quel caso l’unico valore dell’immagine che viene fuori è il fatto che la possono leggere anche gli altri — quasi tutti, forse tutti — e non il suo essere una rappresentazione buona, fedele (perché non lo è, in effetti è solo un’immagine fatta male, è un’approssimazione). Insomma, ci arrendiamo al limite di raccontare qualcosa per come è possibile, invece che seguire la necessità di farlo per come è giusto.
Spesso la realtà non vuole essere raccontata, e la nostra è soltanto ostinazione. E questa ostinazione, costruita sulle parole che non abbiamo, su di una mancanza, non si ferma solo a come ci descriviamo vicendevolmente le nostre vite. Dal linguaggio diamo forma anche ai nostri comportamenti, che si muovono inesorabilmente allo stesso modo, tra le opzioni che abbiamo davanti. Ci rendiamo conto che il significato delle cose non entra tutto nelle parole e nei ruoli di cui disponiamo. È frustrante, ma forse ci va bene: il linguaggio in qualche modo smorza il nostro sentirci unici e inspiegabili, i suoi limiti diventano i nostri. Il suo essere compromesso ci ridimensiona e ci fa uscire dalla solitudine del particolare. Di conseguenza approssimiamo, semplifichiamo. E finalmente rendiamo tutto universale.
Universale un cazzo. In questo modo io che sono una donna, divento soltanto una moglie. I miei desideri diventano capricci, routine. La voce di mio marito, le sue azioni, i suoi tentativi di cambiare il tempo su cui sente di non avere più controllo: tutto scompare in una vita fatta di consuetudini. E ogni cosa diventa gretta, scontata. Le persone che siamo e quelle che incontriamo si trasformano solo in stereotipi. Persino le nostre scelte e le nostre rivoluzioni prendono la forma più semplice, più condivisa, più a portata di mano. Tutto è soltanto un pettegolezzo.
Una volta mi sono sposata. Non ne sapevo molto dell’amore, non che adesso ne sappia molto di più, ma almeno gli anni ti fanno mettere le cose in prospettiva. La rassegnazione, quando arriva, è tutto sommato la conferma che un’alternativa c’era, e che l’abbiamo scoperta come rinuncia. Carmine è sempre stato bellissimo, e io pure. Abbiamo avuto una storia facile e giovane che è stata molto spesso un clichè, pure quando è finita. Una volta gli dissi che ormai erano così tanti anni che stavamo insieme che avremmo potuto continuare così per sempre. Glielo dissi come una cosa bella, era una sorta di proposta, ma lui la intese diversamente. Era come se fossimo arrivati al momento in cui bisognava diventare qualcosa: tutto ad un tratto sembrava che la nostra storia non fosse stata altro che un enorme periodo di prova senza un epilogo. Che cosa stavamo provando ad essere? Che cosa in effetti non eravamo già?
“Potremmo restare insieme così per sempre” suonava nella sua testa con la paura di una nostra condanna, come un preparativo che non finiva mai e a cui bisognava per forza dare un esito. Questa cosa mi spiazzava: aveva ragione. Ma d’altra parte la vita è fatta di cambiamenti e io ho provato a cambiarlo.
Alla fine ci sposiamo, perché era la cosa più facile. Anzi, in verità alla fine io lo uccido. Il matrimonio è stato solo l’inizio.
Sono venuta in italia a studiare la bellezza, o almeno è quello che dico nei colloqui su Skype. L’Europa mi è sempre sembrato un posto divertente, sicuro, francese. Vista dall’America l’Europa è tutta Francia: una Parigi a perdita d’occhio, fino all’orizzonte. In effetti tutto intorno, subito dopo l’orizzonte, c’è il mare, ci sono gli scogli, i bei ragazzi abbronzati, i limoni, il cibo fresco. Quindi, tirando le somme, per gli americani l’Europa è questa enorme Parigi circondata da una costiera amalfitana infinita.
È un’immagine che mi affascinava molto, e sono venuta a vedere come mai ce l’avessi in testa così chiara, da dove arrivasse, se fosse veramente così. Poco dopo il mio arrivo in Italia scopro ovviamente che ci eravamo fatti un’idea sbagliata, ma che al tempo stesso non era colpa nostra - non è mai colpa nostra dopotutto, siamo americani. L’unica immagine che ci hanno sempre mandato dall’altra parte dell’oceano, e che continuano a mandarci, è quella che già abbiamo in testa. La cartolina che ci viene spedita ogni anno è uguale a quella che già conserviamo sul frigo, e di solito pure il messaggio è lo stesso. Baci e abbracci. Tutti gli anni. Baci e abbracci.
E così continuiamo a osservare solo le immagini che riconosciamo, a ripetere solo le cose che conosciamo. Finchè ci ritroviamo con l’attraversare soltanto quello che, ogni giorno, continuiamo a ripeterci. Confondiamo la natura con la tradizione, la verità con la consuetudine, lo scoprire con il riconoscere. E ogni volta che abbiamo bisogno di conferme le cerchiamo nella frequenza degli eventi, delle informazioni, dei ruoli sociali, degli orientamenti sessuali; nella frequenza delle gerarchie e delle manifestazioni di piacere. Le cerchiamo e senza sforzo le troviamo. Dopotutto non c’è niente di male ad essere felici come lo sono tutti gli altri intorno a noi, o di come lo sono stati e lo saranno tutti gli altri prima e dopo di noi. Non c’è niente di male a ripetere quello stare bene ogni volta, fino a darlo per scontato, fino ad esaurirlo. E io che sono bionda e sono americana, e sono giovane, e sono venuta in Italia a studiare per un po’, tutto sommato non ho bisogno di aggiungere altro. Non saprei che altro aggiungere dopotutto, non ne ho motivo. Sono felice nel modo in cui so che si può essere felici. Sono felice come può esserlo una ragazza di vent’anni in un mondo in cui non sa che domande porsi.
Non sono una puttanella, non sono superficiale. C’ho vent’anni. Sembra tutto così sbagliato, ma è solo spensieratezza.
Mia moglie me lo diceva sempre - ogni volta che provavo a spiegarle le ragioni delle mie fughe, o a giustificare i miei tradimenti, la mia paura del futuro, la mia immaturità - e ha sempre avuto ragione: la realtà non vuole essere raccontata quasi mai. Ogni racconto è una traduzione, e ogni traduzione è un tradimento.*
*Che poi prima di mia moglie mi sa che lo diceva pure Heidegger.