Le migrazioni sono una risorsa, e a volte una violenza.
Le persone che si spostano modificano inevitabilmente gli orizzonti di un luogo, ne ampliano e contaminano la cultura e le abitudini. E in questo senso le migrazioni fanno bene: un territorio vince il suo essere immobile, il suo essere solo terra, attraverso la comunità che lo abita. Il desiderio che la gente ha di spostarsi va quindi sicuramente stimolato, nutrito e incoraggiato. E subito dopo vanno intercettati i frutti e le possibilità generate da tutto questo.
Gli individui però si spostano non soltanto per desiderio, per il bello di andare a Milano a ventanni, lo fanno anche per necessità. Perchè se c’hai ventanni a Bagheria, Milano ti sembra l’unico posto in cui è possibile avere una vita. E se l’aspetto più duro in questi casi è la costrizione, la mancanza di scelta, quello più pericoloso è che questa mancanza venga data per scontata. Migrare da alcuni territori verso altri — concentriamoci soltanto sul territorio nazionale — è diventato nei fatti, e nel corso delle generazioni, un automatismo. Nemmeno ce ne rendiamo più conto. Non è tanto il doversi allontanare — a volte controvoglia, altre con entusiasmo — ad essere un problema, ma il farlo come qualcosa di ovvio. Il non realizzare che si tratta di una prassi. E quell’entusiasmo, che dovrebbe essere figlio dell’eccezionalità, è invece generato da una consuetudine. Chiaramente, a dirla così, suona un po’ strano. E in effetti lo è.
Alla fine in determinati territori la migrazione è quasi sempre solo emigrazione, e in questo senso si può considerare una violenza, sia per la comunità che la subisce e sia, soprattutto, per il territorio, che la vive come privazione.
Parlare della voglia o della necessità di andarsene ha ancora più senso se lo si fa dalla Sicilia. Lavorare in quest’isola, scegliere di lavorarci veramente, significa porsi al centro di un tessuto sociale che ha sempre avuto a che fare con l’idea di altrove (come probabilmente ogni altra provincia, ogni altra frontiera e sicuramente ogni altra isola). Significa partecipare al suo tessuto culturale, consapevoli di quanto sia prezioso stimolare il movimento di idee e persone. E di quanto, d’altra parte, sia pericoloso non ancorare tutto ciò alla consapevolezza che l’altrove è una grande possibilità, e non un bisogno.
Noi, tutto sommato, ci occupiamo soltanto di immagini. Ma lo facciamo attraverso pratiche e idee che tengono conto anche di tutto questo. E non potrebbe essere diversamente, visto che abbiamo scelto di lavorare a Palermo, in mezzo al Mediterraneo, in uno spazio che vuole essere interlocutore per chiunque si occupi di progetti relativi all’immagine.
Lo spazio si chiama Minimum. Ci lavoriamo dentro ogni giorno, per cercare di uscirne il più possibile.
(Questo testo è uscito per la prima volta su Maps Magazine / Issue n.3)