Ultimamente ho visto due cose diverse che mi hanno rapito più o meno allo stesso modo. Sono andato a vedere Avatar, quello nuovo, al cinema. E poi l’altro giorno mi sono visto tutta la prima puntata di Sanremo.
Quando dico rapito, intendo proprio sequestrato: stavo chiuso da una parte, seduto in penombra, in un caso con degli occhiali speciali che ti facevano avere allucinazioni, nell’altro sotto il continuo ricatto che qualunque scelta prendi rispetto al festival, sbagli.
Il secondo capitolo di Avatar dura più di tre ore. Si chiama “Avatar - La via dell’acqua”, ma si potrebbe chiamare tranquillamente “Avatar - La via dell’aceto”. Tutto è ambientato su Pandora, un pianeta bellissimo dove tutti gli esseri viventi si vogliono bene e c’è grande rispetto reciproco tra le specie, e l’unica forma di violenza efferata sono le pubblicità locali che ti attaccano subito e non finiscono mai. Decine e decine di spot da pochi secondi, tutti all’inizio, che ci raccontano che in questa città oggi si lavora solo con lo street food e con gli abiti da cerimonia. James Cameron racconta una storia molto bella ed emozionante di una famiglia di nativi che si trova ad affrontare diverse vicende in 3D e che soprattutto, a circa un terzo del film, si pente di essere andata al cinema e tutti i suoi membri iniziano a conversare e giocare con i telefoni, prendendo una posizione chiara sul fenomeno della dipendenza da smartphone.
Nonostante la lunghezza il film si segue bene: è facile, coinvolgente, e soprattutto carico di immaginazione in ogni momento. Immagina, per esempio, se me lo vedevo a casa mia. Che succedeva? Prima di tutto me lo vedevo in lingua originale, e poi sicuramente ero molto più autonomo su orari, cibi, sigarette, pause e pigiami. Tutto questo lo si sa, lo si dice sempre. Però Avatar va oltre: cosa mi perdevo a stare a casa? Immagina, onestamente, fai uno sforzo. Perché sono andato al cinema, visto che ormai non ci vado mai? Perchè tutti noi andiamo al cinema oggi? Immagina. Al di là del senso politico di supportare una roba che sennò muore (e quello lo si fa soprattutto NON andando al cinema a vedere un film come Avatar, ma tutti gli altri), insomma al di là della responsabilità sociale, quali sono i vantaggi personali di andare al cinema? Eh, grandissima immaginazione. Immagino due motivi, sbilenchi.
Primo, per l’esperienza sensoriale raffinatissima che puoi trovare al cinema (per alcuni film potrebbe fare la differenza). Anche se quella ce l’hai, forse, solo nelle sale di ultima generazione, e in molte città (anche Palermo) l’ultima generazione è ultima da troppo tempo.
Secondo, per condividere quell’esperienza con altri, più o meno sconosciuti, con cui consumi cose (spesso alcol) prima e dopo la proiezione. Però anche sta cosa funziona ormai solo in contesti particolari: negli “eventi” al cinema, in cui è un po’ come andare ad un piccolo concerto, o ancora nei festival. In entrambi i casi il grosso è costituito proprio dall’andare al cinema insieme, più che guardare il film insieme. In altre parole, oggi andare al cinema per partecipare ad un festival ha probabilmente più senso che andarci per vedere un film. E ad Avatar alla fine bisogna riconoscere proprio il merito di portarti in questa nuova dimensione in cui se ti vuoi vedere un film qualunque - in coppia, da solo, con un amico - è meglio se ti stai a casa.
Poi c’è stato Sanremo. Ora che scrivo ho visto solo la prima puntata, e penso mi vedrò pure la seconda (edit: vista a metà). Negli anni l’ho sempre guardato a spizzichi, ascoltando più volentieri le canzoni in streaming le mattine dopo. Ma quest’anno è successo che ho una squadra al Fantasanremo e di conseguenza non sono riuscito a spegnere la tv quando avrei dovuto, proseguendo per ore e ore tra rantoli e sbuffi, perché in qualche modo dovevo sapere. Dovevo vedere.
Si tratta di una serie lunghissima, sono tipo 73 stagioni, ognuna delle quali ha pochi episodi, di solito cinque, che però durano tantissimo, quattro cinque ore ognuno. Il regista non è James Cameron, ma potrebbe pure esserlo visto che la serie racconta anche lei di un mondo parallelo in cui succedono cose che hanno vagamente a che fare col paese reale, ma in maniera molto fantasiosa. La storia si basa su un assurdo: si fa finta che c’è un festival musicale, con delle canzoni in gara, ma è tutto un pretesto: il punto non è tanto ascoltare musica, quanto ascoltare commenti e opinioni su abiti e comportamenti, approvare o disapprovare un intervento, salutare, profumare i capelli, indignare i vecchi, giudicare i giovani, abitare gli hotel, vedere la diva, abbracciare qualcuno mezzo famoso, sognare le conferenze stampa. Per certi versi è una serie molto riuscita, una cosa tipo Black Mirror nazional popolare. Anche in questo caso si tratta di un contenuto carico di immaginazione, che però rimane distante. È come una festa in cui vedi gli altri che si drogano.
Tutto quel circo ha un senso vero solo là, a Sanremo, non a casa mia a morire davanti ad un televisore in cui tutte queste cose diventano inesorabili e pallosissime. Perchè mi guardo il festival in tv? Che cosa cerco, e che cosa trovo? Per le canzoni c’è lo Spotify di domani, se invece mi voglio godere veramente Sanremo, devo andare a Sanremo, l’unico posto dove quell’immaginazione è davvero un’allucinazione.