Ricordo che qualche tempo fa venne fuori un dibattito - o più probabilmente una polemica - su una questione del tipo: si può chiamare hamburger una roba fatta di seitan, oppure no? Dopotutto perché dover concedere un nome da sempre appartenuto ad una categoria ben precisa (hamburger) a qualcosa che ne è stata sempre fuori, con un’origine diversa, una natura diversa (seitan), che un giorno si sveglia e vuole entrare nella stessa categoria?
C'è chi pensa, a proposito delle polpette vegetali, che il divieto di chiamarle hamburger sia necessario per evitare strumentalizzazioni commerciali. Lo si userebbe solo per illudere il consumatore di partecipare allo stesso fenomeno - cioè il mangiare un hamburger - avendo lo stesso comfort e la stessa esperienza. E così, pur di vendere quell’esperienza lì, ci si arrende a chiamare tutto allo stesso modo. Ma non va bene, l’hamburger e il seitan sono cose distinte, si dice.
A me però, prima di tutto, viene in mente che il linguaggio è sempre arbitrario in qualche modo. E, soprattutto, che il significato delle parole che usiamo per chiamare le cose sia dato non dall'origine delle cose stesse, ma dalla funzione che quelle cose assolvono. Che sia legale o meno chiamare latte (vegetale) una roba che non è latte vaccino, la gente continuerà ad usare la bevanda di soia come se lo fosse: con i cereali, nelle torte, nel caffè. Per di più, al giorno d’oggi, siamo così lontani dall’origine delle cose che il latte non è più comunque quello che esce dalla mucca, il latte è quello che esce dal tetrapak. E così il latte di soia è a maggior ragione, e a tutti gli effetti, latte: lo è per la sua funzione, e negare una roba del genere è solo perdere tempo, nell'attesa che quel modo di dire diventi comuque di uso comune.
Stesso discorso vale per la famiglia: una famiglia composta da due padri, o da due madri, si può chiamare famiglia? Forse sì. Al di là di come si debba chiamare la tua famiglia (coppia di fatto, unione civile, convivenza aumentata, ecc.), alla fine si tratterà sempre del nucleo base della comunità a cui appartiene. La funzione ci porta e ci porterà naturalmente a semplificare, soprattutto credo su grande scala, socialmente: famiglia, latte, hamburger.
La questione non è così semplice, però, è controversa. Siamo in anni in cui la coscienza del cambiamento è enorme: abbiamo la possibilità concreta e intellettuale di modificare moltissimi dei valori con cui siamo stati istruiti e il linguaggio è soggetto al cambiamento come ogni altra cosa. Anzi, il linguaggio è forse quello che più vuole essere indirizzato o sorvegliato, cambiato o tutelato, all'interno del progresso. È l’apripista, o la retroguardia, a seconda delle fazioni.
Il problema con il progresso, diciamocelo, è che è un pacco: spesso si trova a dover risolvere cose che esso stesso ha creato qualche tempo prima. E di conseguenza è giusto pure sentirsene un po’ spaventati. Insomma da un lato è giusto che il lessico assecondi le nuove funzioni, le nuove forme e le nuove categorie in generale. Ma d’altra parte un approccio troppo slegato dall’eredità semantica delle nostre parole rischia di essere pericoloso. Modificare il linguaggio assecondando i tempi, dà nuovi significati alle cose o le svuota di senso? In altre parole: e se, nel modificare continuamente il linguaggio - svincolandolo dalla natura delle cose per vincolarlo sempre di più alla loro funzione - non finissimo per svuotare progressivamente ogni cosa di qualunque significato? Dopotutto il progresso ci ha insegnato a chiamare con i termini viaggio, alimentazione, arte, lavoro, cultura, cose che ormai hanno veramente poco a che fare con ciò che fingono di evocare. Cose forse i cui tratti originari sono stati un peccato perdere e omogeneizzare in questo modo, sotto un unico ombrello che alla fine è sempre e solo il consumo.
Al momento non so che tipo di vantaggi o minacce possono arrivare dall’una o dall'altra strada, ma credo sia giusto creare conflitti, darsi pensiero. La soluzione forse, in ogni caso e al di là del significato che diamo alle parole, è individuale: accrescere il proprio vocabolario, che poi è quello che dà forma alla propria visione del mondo. Le esperienze che abbiamo vissuto, le nostre emozioni, i nostri valori, saranno sempre enormemente più grandi, particolari e precisi di quanto sapremo mai esprimere. Nonostante questo - o forse proprio per questo - tendiamo inesorabilmente a voler mettere sempre più a fuoco il nostro pensare e sentire. Assecondiamola questa tensione, anche soltanto individualmente.
Per quanto riguarda la società direi di no, credo funzioni tutto in modo diverso, come già detto: la società ha bisogno di mediazioni, di semplificazioni. Ma magari poi anche lei ci seguirà a ruota, indipendentemente da quello che vorrà dire un giorno la parola hamburger.