Vivevamo felici e contenti. Lo eravamo così tanto che sembrava per sempre. Nessuno a parte noi ha davvero mai saputo che cosa ci fosse dentro quella felicità. Nessuno ha mai raccontato quella storia: a tutti bastava sapere che eravamo l'una con l'altro. A pensarci ora sembrava proprio una cosa fuori dal tempo, incomprensibile, senza giorni che passano, una cosa che non si può raccontare perché sennò perde di senso, e allora si dice felici e contenti e basta.
Poi un giorno ci sposammo. Andammo al suo castello per il matrimonio, e fummo accolti dai più grandi festeggiamenti di sempre, i più belli che avessi mai potuto immaginare. Adesso non sono niente di più lontana dall’essere una regina. Allora però era una cosa familiare. Non che lo sia diventata mai, regina, ma quello che mi stava capitando mi faceva sentire come se lo fossi stata. Il matrimonio fu grandioso, furono invitati da tutto il mondo, molte più persone di quelle che avrei mai potuto conoscere. Regali, musica, nastri, banchetti. Il mio sposo era vestito di azzurro. Era primavera, ricordo che per quasi tutta la mia vita è stato sempre primavera.
Da lì in poi le cose sono iniziate a cambiare, anche piuttosto velocemente. Mi avevano avvertito, si sa che il matrimonio cambia tutto, e mi chiedo sempre perché uno non si possa sposare al contrario. Perché tu non possa essere prima triste e demotivato, e poi ti sposi e vivi una vita piena di amore, di passione.
Per quanto magnifiche le nozze furono soltanto nozze. Il matrimonio andò ben oltre quei giorni, e noi affrontammo la vita con tutta la passione possibile. Mi ricordo che non faceva che ripetermi che ero bellissima. Non mi diceva altro. In effetti non è stato mai un uomo di molte parole. Sei bellissima però lo diceva, e mi copriva di attenzioni e di regali. E soprattutto era molto divertente, al punto di sembrare folle: mi faceva scherzi da matti, in continuazione.
Un giorno venne da me e mi regalò una scarpa sola, come pegno d’amore.
«Ma che pegno d’amore è?» gli chiesi ridendo.
E lui mi disse «Ti devi fidare. Mio padre ha organizzato una festa, un ballo a cui è invitato mezzo mondo. E tu ci dovrai venire con questa scarpa!» rideva. «Non temere: prima di entrare, all’ingresso, troverai l’altra scarpa, sulle scale. Fidati.»
«Ma tu sei matto!» dico io mentre lo spingo. «E poi che cosa si festeggia?»
«Non so bene, credo noi» e sorride.
Alla fine era una bella idea, folle ma tenerissima.
C’era da fidarsi di un matto del genere? Io lo feci e in effetti la scarpa era lì, sullo scalone centrale. Me la misi, entrai dentro e ballammo per ore, scatenati. Ci guardavano tutti. Lui stesso non aveva occhi che per me, e non riuscivo a credere quanto stessi bene. Ad un certo punto mi chiesi quanto tutto questo sarebbe potuto durare. E non avrei dovuto chiedermelo, certe domande non bisogna mai farsele, quando arrivano non te le togli più dalla testa.
Dopo quasi due ore passate a ballare come matti in mezzo alla villa piena di gente, ci fermammo. Io andai sorridente ed eccitata a prendermi ancora da bere, e lui restò lì, ai margini di quel grande salone a guardarsi attorno.
Fu in quel momento che ebbi paura. Sembrava cercare qualcuno. Non capivo, lo sapevo che stava cercando me, ma lo faceva guardando tutte le altre, tutte quelle donne in età da marito, più o meno vergini, di cui la festa era piena. Ne cercava gli sguardi, osservava i vestiti e le movenze. E loro parevano mettersi in mostra, sembravano essere lì per farsi guardare da lui, talvolta gli si avvicinavano, ora che io ero lontana, e lui gli sorrideva gentile. Mi sembrava così evidente che non ci credevo, forse era solo gelosia. Era tutto nella mia testa, scomparivo piano piano.
Non smisi di osservarlo per un attimo, dalla penombra di fianco al bancone, fino a che mi accorsi che qualcuno iniziava a lasciare la festa. Era fermo a lato della sala, eppure sempre al centro dell'attenzione. Dopo il ballo non mi aveva mai più trovato. Provai un disagio che non avevo mai provato e che mai mi sono riuscita a spiegare fino in fondo. Non avevo idea di come comportarmi, volevo solo andarmene.
Adesso so che fu panico. Ho avuto paura di non meritarmi tutto questo, così tanta da trasformarla in realtà. Tutto era troppo bello per essere vero. Che ci facevo io lì, in mezzo a quel castello? Potevo veramente essere la sua principessa? Non poteva durare, prima o poi si sarebbe accorto di essere stato accecato dalle circostanze, e che io non ero quella che aveva sempre creduto. Ero terrorizzata all'idea di poter deludere, di non essere all'altezza.
È strano che per la paura di perdere qualcosa si scelga di abbandonarla, ma non potei farne a meno. Scappai quella notte senza che nessuno mi notasse, scomparii per sempre. Provò a cercarmi a lungo, l’amore della sua vita, senza riuscire a trovarmi mai. Un giorno ci rinunciò.
Da quella sera vissi come potevo, lontano da tutto quel futuro azzurro, da quei castelli celesti, rifugiandomi in luoghi da cui di solito la gente scappa. Mi nascosi a casa di parenti lontani. Quando mi presentai da loro non sapevano niente di me. Gli offrii aiuto per un po’, in cambio di ospitalità, e finii a lavorare da sguattera, da serva. Adesso dormo in una soffitta umida, tra topi e nidi di uccelli. Lavo mutande altrui e preparo minestre. La malinconia è passata e la paura si è allontanata, anche se i desideri sono diventati rimpianti. Ci penso sempre a quello che è stato, e sempre rifletto sul perché non ho visto alcun lieto fine. È tutta colpa delle favole, di come le abbiamo sempre equivocate. Se il lieto fine delle favole fosse davvero stata una conclusione felice, un epilogo che ad un certo punto arriva e che sistema tutto, si sarebbe chiamata lieta fine. E invece no, non è una conclusione che ti arriva dal cielo, un destino che ti capita. È maschile, il lieto fine. È uno scopo che persegui dall’inizio. Fine come proposito, come traguardo. E i traguardi si conquistano, la fine si subisce.