Aspettare o sospettare
Una famiglia prende forma attraverso le tracce che lascia, non attraverso quelle che deve seguire.
Quando sono diventato padre ho capito una cosa. No, non è vero, ho sbagliato, rifaccio. Quando Antonella mi ha detto che era incinta non ci ho capito più niente. Ero fuori dal bagno di una casa condivisa con amici, in un periodo vissuto da uomo solo. Non dico single perchè la traduzione ha a che fare con il non essere in coppia, mentre io ci tengo a sottolineare una certa solitudine. Per fortuna quella solitudine non la devo tradurre in inglese: si potrebbe scegliere tra loneliness, se si intende una roba un po’ triste, qualcosa che subiamo, e solitude, che invece restituisce un significato più positivo, una dimensione ricercata di tranquillità e pace, in qualche modo. Ecco, la solitudine in italiano è uno stato d’animo ambiguo, che contiene contemporaneamente tutte e due le cose, e io credo che in quel momento vivessi appieno questa ambiguità dell’essere solo, molto simile a quella dell’essere libero.
Insomma Antonella si chiude nel gabinetto, piscia su ciò che deve pisciare, e dopo nemmeno venti secondi urla: «Incinta!» Così, senza neanche aprire la porta. Io sento solo questa voce di donna che dice incinta, che attraversa il bagno, supera la porta, supera pure me e si disperde in qualche modo nella casa vuota alle mie spalle. Poco dopo Antonella esce dal bagno emozionatissima e ci abbracciamo. Lei piange, io rido. Era un lunedì mattina.
Da quel momento in poi il mio atteggiamento nei confronti del mondo è progressivamente cambiato. È successo a vari stadi e, nonostante sia stato un processo graduale, devo ammettere che già da subito mi sono sentito profondamente trasformato. I giorni successivi all’annuncio dal gabinetto il mondo era per me subito diverso: era come se avessero premuto una serie di interruttori nel mio corpo che avevano improvvisamente annullato la gravità. Volavo a mezz’aria, e allo stesso tempo mi cagavo addosso. Eppure c’era la parte più lucida e razionale di me che provava a tenere botta - vanamente - e mi ripeteva che nei fatti ancora non era cambiato assolutamente niente nella mia vita, o nel mio corpo (come succede evidentemente nelle donne), o nelle mie esigenze. Fino a quel momento l’unico evento, l’unica cosa tangibile che aveva stravolto la visione del mio mondo, i suoi pesi e le sue priorità, la sua intera matrice emotiva, era in effetti soltanto una semplice informazione ("Incinta!", in mezzo ad un corridoio). Un’informazione che magari poteva essere pure falsa; magari il test era sbagliato, oppure il figlio era dell’idraulico, o ancora la gravidanza per qualche sfortunata circostanza avrebbe potuto interrompersi, lasciandomi nella stessa dimensione in cui quell’informazione mi aveva trovato. In pratica stavo per diventare padre solo per sentito dire. Eppure, e questo è un il punto a cui volevo arrivare, quella singola informazione era tutto: era già sufficiente, e in effetti lo sarebbe sempre stata, anche dopo. A distanza di qualche anno mi rendo conto che la mia vita da genitore non è mai stata altro che il pensare di esserlo.
La biologia, il cognome, la genetica, la legge, la stabilità, il sangue, il matrimonio, il futuro. Sono tutte cose che prima di avere un figlio si può pensare facciano la differenza, e poi invece no, ti accorgi che non la fanno manco un po’. “Ogni padre è sempre un padre adottivo”, come diceva San Giuseppe.
E uno potrebbe dire ma tu che ne sai, tu che sei eterosessuale (illazioni) e hai fatto due figli con una donna altrettanto eterosessuale, che guarda caso è proprio la tua compagna, e adesso vivete tutti insieme e siete proprio la famiglia nucleare degli anni sessanta? Che ne sai delle famiglie omogenitoriali? Che ne sai se i tuoi figli sarebbero stati felici ed equilibrati con due madri e tre padri? Che ne sai dell’adozione? Che ne sai se in tutti questi casi “anomali” i figli non sarebbero stati solamente un feticcio, generati o presi per completare l’idea di amore di una coppia che non può averne? Che ne sai se quei bambini non si ritrovano a forza in una famiglia mai veramente pronta, adatta, a farli felici? Che ne sai?
Probabilmente ne so poco, ma ad essere sincero ne so pochissimo pure di come si fa il genitore in una famiglia tradizionale. E pure Antonella non sta messa meglio. Non lo sappiamo - non l’abbiamo mai veramente saputo - come si fa a fare dei figli sempre felici, educati, intelligenti, colti, socievoli, obbedienti, liberi, creativi, rispettosi, stimolati, sereni, così come ci viene continuamente detto sia giusto. E al tempo stesso essere noi una coppia sempre equilibrata, forte, gentile, complice, erotica, responsabile, divertita, libera, spensierata, rigorosa, così come ci viene continuamente detto sia sano. La nostra famiglia è partita da un desiderio, mica da una capacità. E tutti i figli e le figlie che, come i nostri, sono frutto di un desiderio, sono pure il frutto di un egoismo, di un’illusione. Sono nati tutti, siamo nati tutti, per completare un’idea di amore (o di famiglia) dei nostri genitori, indipendentemente dal fatto che fossero entrambi i nostri genitori biologici, che fossero eterosessuali o meno, biondi o meno, con la tredicesima o meno.
Anni fa nessuno, per fortuna, valutò me e Antonella come potenziali genitori, o come ipotetico nucleo familiare, perché probabilmente ci avrebbero sterilizzato*. “Non raggiungete gli standard, ci dispiace, riprovate in un’altra epoca”. A dir la verità se si fosse mai valutata qualsiasi coppia tradizionale con gli stessi standard qualitativi con cui oggi si ostacolano i nuovi modelli di famiglia, non ci sarebbe mai stata nessun’altra epoca.
Dico tutto questo perché non penso esista una famiglia pronta a prescindere, di nessun tipo. Una coppia di genitori non è formata da persone che hanno fatto un corso e che possono essere validati come adatti o meno. Cioè, c’è anche chi lo ha fatto il corso, ma non è quello il punto. Non è una questione di attestati, e per la verità nemmeno di sperma e ovuli, è una questione di presenza. Sembra banale da dire, ma per fare un genitore ci vuole un figlio. Non tanto generarlo o adottarlo (fare figli non è una condizione necessaria, né sufficiente, per diventare genitori) ma essergli presente (crescere dei figli sì). E di conseguenza è davvero strano decidere chi può essere una famiglia e chi no, e soprattutto è sbagliato deciderlo generalizzando così tanto a monte. Nelle adozioni ci sono delle indagini e valutazioni, in qualche modo comprensibili, che vengono fatte sui candidati genitori, sulla loro situazione economica e familiare, se mangiano frutta e verdura, ecc. Adesso, anche se continuano a sembrarmi talvolta eccessive, almeno sono valutazioni nel particolare, su due persone specifiche. Non è che si fa una legge che chi non mangia frutta e verdura è una merda: quello è un pregiudizio.
Genitore è una qualifica retroattiva, te la puoi guadagnare soltanto dopo che lo hai fatto. Esserlo vuol dire principalmente "Si è preso cura di questo, ed è ancora vivo", detto al passato, non tanto "Gli darà molto amore", al futuro. Va bene provare ad immaginare dei percorsi davanti a noi, ma la famiglia è una cosa che prende forma attraverso le tracce che lascia, non attraverso quelle che deve seguire. Non è il sentiero che possiamo disegnare sulla mappa di un bosco, ma sono le orme che abbiamo lasciato in quel bosco attraversandolo. E se proprio le vuoi analizzare, quelle tracce, ti accorgi che la cosa importante non è da quanti o quali elementi fosse composto il gruppo, che numero di scarpe avessero, quanto pesassero, se fossero tutte donne o meno, ma quanto tutti siano riusciti a procedere insieme, con lo stesso passo.
* Piccola postilla per tutti gli assistenti sociali che leggono: io e Antonella poi un’idea su come si fanno i genitori ce la siamo fatta, nel frattempo. Tuttapposto, tranquilli.