"Hai la stessa suoneria dei messaggi di Agata, ogni volta che la sento mi fa prendere un colpo."
Filippo si è lasciato da poco con la ragazza. Ragazza adesso, c'hanno tutti e due quarant'anni, però è normale essere ancora ragazzi, almeno l'uno per l'altra. E questo naturalmente vale per Filippo come vale per tutti: si può pure diventare adulti, e quasi mai lo si diventa completamente, ma ciò non toglie che per il proprio compagno o la propria compagna non si resti ragazzi.
Mi saluta e se ne va, lasciandomi a casa sua a non fare niente. È un appartamento in centro che gli è stato appena affittato da un'amica: ristrutturato, nuovo, ancora senza mobili, senza cucina, senza sedie, con lo stereo e i vinili per terra, con un frigorifero, una stanza da letto, uno skateboard di traverso sul parquet, diverse piante, diverse cornici.
Ragazzi. In effetti essere innamorati è una condizione che sembra essere legata in qualche modo a quell'età lì, che ci tiene ancorati a quando eravamo giovani, piccoli, a quella spensieratezza da cui abbiamo iniziato a sentirci inspiegabilmente sempre un po' più lontani. Non ce ne vogliamo separare, non vogliamo crescere veramente, se crescere significa poi questo, avere pensieri. E così ci chiamiamo ragazzi l'un l'altra, in una follia che è come ogni innamoramento: siamo complici di una visione del mondo che non è solo una fantasia individuale, perché c'è qualcuno che ci fa da specchio. E se quella fantasia è vera anche nell'altro allora è vera sul serio. Forse ci innamoriamo proprio per restare giovani.
E così quando c'hai quarant'anni e la tua storia d'amore finisce, la cosa drammatica è - oltre a perdere la possibilità di abitare quella follia che è l'amore - che nessuno ti chiama più ragazzo. A parte me. Io a Filippo lo chiamo sempre ragazzo, così come faccio con tutti del resto. Ragazzo. Giovane. Gioventù. L'ho sempre fatto, senza veramente chiedermi come mai in effetti.
I nostri rapporti con gli altri non sono le uniche ragioni delle nostre scelte, però sono un grandissimo acceleratore di senso. Il crescere, il diventare adulti, prende forma nella nostra testa principalmente attraverso il cambiamento delle nostre relazioni. Anche se non è vero, o anche se non lo è del tutto, noi tendiamo a raccontare noi stessi sulla base di chi siamo per gli altri e con gli altri. E di conseguenza associamo il diventare grandi ad una serie di passaggi relazionali, prima ancora che personali o sociali.
Insomma - e mi sa che è proprio questo il nervo scoperto della storia - lo smettere di chiamarsi ragazzi (e di esserlo) non succede soltanto quando ci si lascia, ma anche quando ci si sposa, diventando marito e moglie, oppure quando si fanno i figli, diventando una famiglia, o magari quando si perdono i genitori, diventando orfani. In generale quando si diventa, quando si cambia stato. Cambiamo stato un po' come se fossimo nuvole che diventano pioggia, e più tardi diventano mare. In fondo siamo sempre acqua, eppure cambia tutto, e fa tutta la differenza del mondo. Prova a chiedere a chiunque se preferirebbe essere una nuvola e volare, o essere pioggia e precipitare. Non si fa a cambio nemmeno per sogno. Non si diventa nient'altro, mi raccomando, si resta innamorati per sempre, o giovani per sempre, o figli per sempre, perché è impensabile voler smettere di galleggiare verso l’orizzonte per precipitare a terra. E invece a quanto pare è pensabile, molto più spesso di quanto vogliamo ammettere.
Fuori c’è un sole che è quasi estate. È marzo. Esco sul balcone e guardo la strada libera. Dove abito io sono soffocato dal traffico e qui pare che non c’è nessuno. Tutti amano venire a guidare sotto casa mia.
Mi arriva un vocale, è Filippo che mi chiede se sono ancora da lui, se posso tirare fuori il bucato dimenticato in lavatrice, se stasera usciamo.
Ad un certo punto in quasi ogni coppia di nuvole arriva la bassa pressione. Il che, nonostante suoni molto molto deprimente, non lo è per forza. É un fenomeno normale, che magari arriva anche per una ragione bella: per accumuli, perchè si sono accumulate cose. Ricordi, esperienze, noie, litigate, problemi risolti insieme, vacanze, spese impreviste, parenti, amici, scopate, pause, desideri, altri desideri. Tutte queste cose necessariamente si sommano, si mettono una sull'altra, e anche se siamo nuvola e voliamo iniziamo a sentire che tutto ciò, ad un certo punto, non è un peso, ma ha un peso. Certo, magari spaventa perché vuol dire che tra poco piove, ma tutto questo non avviene perché una nuvola non riesce più a sostenere il suo peso: non diventa pioggia perché non ce la fa più, diventa pioggia perché, tremante, si chiede una cosa del tipo: "E se restassi davvero qui a galleggiare per sempre?" Il punto è che anche le nuvole soffrono di vertigini, perciò piove.
Diventare oceano? No, oceano no, mi sembra troppo mainstream, io non voglio diventare grande come fanno tutti, cioè non fa per me, se devo diventare adulto e devo cambiare forma lo devo fare a modo mio, con un taglio personalizzato, l'oceano non va bene. Un lago. Mmh, troppo statico, già mi pesa perdere la libertà del cielo, poi senza nemmeno le onde o le correnti proprio non si può fare. Un fiume. Anzi, un ruscello! Piccolo, pulito, di montagna. Puro. Eccolo. Se proprio devo assecondare questa esigenza di prendere una forma adulta, di cercare un significato come pare lo ricerchino un po' tutti, io avrò un senso libero, incontaminato. Un ruscello. Adesso precipito, piovo, e divento un ruscello.
La pioggia non sa mai dove va a cadere, e meno male. Se non fosse così pioverebbe molto meno. Illuderci di trasformarci certamente in un ruscello è utile, perché ci fa superare la paura e l’ansia. Ultimamente il "diventare" è stato sempre più collegato ad una prestazione, e all'ansia che ne deriva. Adattarsi, affezionarsi alle abitudini, mollare tutto e ricominciare, vedere cambiare gli altri, vederli crescere a loro volta, accettare di sentirli migliori di quello che siamo stati noi, smettere di fare questioni di principio, saper cambiare idea, stare fermi, riconoscere che avremmo potuto forse fare di più, sopravvivere a qualcuno, accettare una propria discutibile felicità. Tutto questo - persino tutto questo che in qualche modo può essere considerato crescere - viene messo in discussione, misurato e paragonato a quelle altezze dove ci stanno i ragazzi e le nuvole, puri e imperturbabili. E quando si è così in alto ci viene inevitabilmente da pensare che ogni cambiamento sarà verso il basso. Crescere verso il basso, suona paradossale.
Questa tensione "a scendere" non è sempre stata sempre, però, un'immagine negativa, svilente. Fino a qualche tempo fa, probabilmente qualche generazione fa, da ragazzi non ci immaginavamo come nuvole: stavamo sempre in alto, ma più come frutti su un albero, che quando maturavano cadevano. Cadevano per diventare grandi, per crescere, in effetti. La dinamica era la stessa - e dopotutto è sempre stata la stessa, parliamoci chiaro, al di là delle metafore: si è sempre trattato di fare l'amore, impazzire, rinnovarsi, crederci - ma l'immagine che ne avevamo era molto diversa, e forse non veniva avvertita come la condanna che è oggi. E anche se è cambiato tutto, ed è giusto e bello che si legga il mondo in maniera diversa, dovremmo provare a ricordarci che precipitare fa parte di questo mondo, e in qualche modo è una cosa normale. Precipitare non è grave, è gravità.